Solo una cosa ancora mi commuove: l’onestà – cit. Demetrio Perez
Strade buie e deserte. Un buon inizio per una storia. La cornice della vicenda si delinea sotto un tono ambiguo e misterioso che subito ci mette in allerta.
Un grido nella notte ci sveglia. Siamo chiamati alla causa. Siamo chiamati a rispondere. Come agiremo? Come ci comporteremo? Domande come queste attraversano le menti di tutti noi in un giorno qualunque.
Il film inizia con una morte, e finisce altrettanto, con una morte.
La prima immagine che ci appare è quella di una Napoli ancora addormentata, all’alba, che s’intravede tra gli specchi degli immensi palazzi del centro direzionale. Palazzi, il cui scopo sembra quello di raggiungere Dio, e catturarlo in un riflesso. Catturare il suo sguardo, anche per un solo istante, proprio come fece Lucifero o come tentarono di fare alcuni uomini con la torre di Babele. Un tipo di peccato che non perde mai il suo fascino.
Tra le strade deserte Demetrio Perez corre. Poi, qualcuno urla il suo nome. Sentiamo un tonfo e ci rendiamo conto che un uomo è morto (come nella poesia ‘’il canto della tenebra’’ di Dino Campana).
il nome ‘’Perez’’ compare a lettere cubitali sullo schermo, bianco su nero. Alla fine del suo nome, un punto.
Tutto comincia con il Vortice di pensieri nella testa di Demetrio, che lo accompagnerà per tutta la vicenda.
‘’io lo vedevo il muro davanti a me, non è che non lo vedessi, eppure continuavo ad andargli incontro. I segnali che avrei finito per schiantarmi erano chiari, purtroppo li compresi solo molto tempo dopo, quando ormai era troppo tardi. ’’
È sempre un viaggio interessante quello che si intraprende affrontando un film come Perez. di Edoardo de Angelis. Si tratta del tipico film, che non è per niente tipico. Un noir esistenzialista e introspettivo, come altri che di recente hanno animato il panorama italiano (e mi riferisco specialmente ad esempi come ‘’Cha cha cha’’ di Marco Risi).
La pellicola del 2014 segue le grottesche vicende di un avvocato penalista d’ufficio dell’hinterland napoletano, il quale senza volerlo, entrerà a far parte di un ingarbugliato gioco di poteri.
Di solito il genere noir o l’hard boiled non sono considerati tanto opere artistiche, quanto mezzi d’intrattenimento. In tale filone, ciò che conta è quanto il finale sia scabroso ed ingegnoso. La forma, la tecnica, la morale, la metafisica sono tutti aspetti che passano in secondo piano davanti all’elemento fondamentale: il colpo di scena. Ciò nonostante, un noir ha molte carte dalla sua parte per poter diventare un capolavoro. Questo film in particolare, gioca con l’aspetto centrale di qualunque progetto artistico o filosofico: l’umanità. L’essere uomo, unità a se stante in una forma concretizzata che nasce e si sviluppa nell’astratto e nell’assoluto.
La vita di Demetrio Perez non potrebbe essere più insopportabile: la moglie lo ha lasciato anni prima senza motivo, fa un lavoro che lo costringe a stare a contatto con la peggior gente che si possa incontrare, la figlia Tea lo tratta come il peggiore degli uomini, e come se non bastasse, si è fidanzata con Francesco Corvino (Marco D’Amore), figlio di un boss della camorra. Ma la vera vicenda narrativa nasce quando Perez viene avvicinato da una curiosa creatura: Luca Buglione (Massimiliano Gallo). Buglione, detto ‘’100%’’, è un importante boss della camorra, ultimo sopravvissuto della sua famiglia, la quale è stata sterminata dai clan rivali. Buglione per salvarsi la pelle, vuole costituirsi e diventare (almeno così sembra) collaboratore di giustizia. Buglione insiste per avere Perez come avvocato, perché conosce ogni dettaglio della sua situazione e per convincerlo ad assisterlo, gli farà un’allettante proposta: se l’avvocato recupererà una partita di diamanti (da 80 milioni di euro) dalla pancia di un toro in un allevamento a villa Literno, Buglione confesserà a sfavore di Corvino, in modo da allontanarlo dalla figlia di Perez.
Un piano geniale e meticoloso. Peccato però che nella realtà c’è sempre qualcosa che va storto (nessuno è ancora riuscito a confutare la legge di Murphy).
Perez non sembra essere interessato all’offerta di Buglione (troppo pericolosa forse), e rimanere tra gli ignavi, sembra più consono alla sua natura; ma una rapina andata grottescamente male (per i rapinatori), cambia tutto. Perez afferra la canna della pistola che gli è stata puntata alla tempia e urla contro uno dei suoi aggressodddri:’’spara! Spara!’’. Ma questo non spara. Questa è un grande lezione per Perez. Quando i due rapinatori scappano impauriti dal gesto di Perez, questo sancisce la sua prima vittoria. Sancisce la sua fuga dal regno d’oltretomba degli Ignavi.
Dopo una vita di soprusi (prima il padre, poi la moglie, ora la figlia e la camorra..), Perez decide di prendere in mano la propria vita; seguendo le indicazioni di Nietzsche per divenire Übermensch: passare da ‘’così fu’’ a ‘’così volli che fosse’’.
Un film come questo ti colpisce dentro per via del suo contrasto e dei suoi particolari inconfondibili.
Il contrasto è quello tra l’ambiente (così anestetico ed inanimato) e il soggetto (imprevedibile quanto sconclusionato).
Quello qui presentato, è un classico tema della narrativa e della cinematografia: la storia raccontata si basa in genere su due pilastri, che sono il personaggio e l’ambiente. Per ‘’personaggio’’ s’intende tutto ciò che ha a che fare con le caratteristiche proprie del protagonista; mentre ci si riferisce ad ‘’ambiente’’ per indicare tutte le vicissitudini, le problematiche, le relazioni che sono esterne al protagonista, cioè che non dipendono da lui. Una buona storia verte sul giusto incrocio tra personaggio ed ambiente.
Per parlare di ambiente, qui è fondamentale il concetto di sistema. Ma quale? Nel corrente uso dialettico napoletano, si parla di ‘’sistema’’ per fare riferimento all’organizzazione criminale partenopea nel suo complesso. Si tende ad utilizzare un solo vocabolo per racchiudere tutte le sfumature, le ramificazioni e tutte le inesplicabili complicazioni. Come se un tale riduzionismo avesse una valenza dogmatica rivelatrice. È proprio in questo ‘’concetto-ambiente’’ sistematico che avviene la vicenda di Perez.
Il buio della città non ha niente a che fare con la mera descrizione naturalista che ha caratterizzato il nostro cinema nel suo momento più saliente (il neorealismo degli anni 50). Si tratta più che altro di una prospettiva, cioè un punto di vista mentale sul costante presagio di una sciagura che si sta per abbattere.
Il centro direzionale di Napoli, con i suoi grattacieli importati direttamente dall’epoca moderna, tenta disperatamente di emulare un canone newyorkese di progresso, in una delle città più antiche, ricercando quel senso di civilizzazione ed evoluzione che un tempo deve aver dato il nome a quella città (‘’Neapolis’’, dal greco, ‘’nuova città’’).
Il gioco speculare è graffiante: mentre i fatiscenti palazzi dall’aria imponente, in realtà sono istituzioni prive di senso, i personaggi che sembrano vuoti e spenti, sono fin troppo animati dalle vicende che s’infrangono tra le mura e sui porti.
Gli specchi di quei palazzi poi, sembrano concedere, agli occhi di chi ha il coraggio di guardare, una versione distorta della realtà e di tutto ciò che vi gira intorno.
Sullo sfondo di tutto questo c’è una trama paradossale e complessa, il cui capo e la cui coda sono indistinguibili: la criminalità organizzata, l’inconcludente lotta contro di essa, c’è Napoli, la violenza, la bellezza inavvertibile, l’ordinaria amministrazione nella follia, e soprattutto l’imprevedibilità, la confusione e l’insensatezza.
Veniamo ora al protagonista principale di questa epopea, Demetrio Perez, il cardine che non possiamo fare a meno di analizzare.
La figura di Perez può essere sicuramente letta come una metafora di una buona parte della società napoletana. Quella che arranca, che si destreggia, quella che non vorrebbe ‘’ma..’’, quella oscurantista, quella omertosa, quella che scende a patti. Ma c’è molto di più dietro il volto prestato da Luca Zingaretti.
Un personaggio come Demetrio Perez è un magnifico esempio di poesia cinematografica, un uomo che passa inosservato nel suo silenzio, ma i cui altisonanti pensieri sono più vivi della sua stessa vita (come capita ad Ed Crane, protagonista di ‘’l’uomo che non c’era’’, film dei fratelli Coen).
Anche la nomenclatura del protagonista non sembra essere casuale: un’analisi del nome di battesimo, che deriva dal greco, unito al cognome ispanico, sembra portare alla conclusione che l’autore abbia voluto lasciare degli indizi sulla personalità e l’ambiente che caratterizzano il protagonista e le vicende da lui affrontate. Infatti non dobbiamo dimenticarci che la città di Napoli nasce come una colonia greca e che successivamente prospererà sotto la dominazione spagnola. Gli influssi dell’antica Grecia e della Spagna sono sicuramente quelli che hanno caratterizzato maggiormente la cultura e la popolazione partenopea. Inoltre il nome Demetrio è particolarmente legato ad una figura mitologica ben precisa, cioè quella della dea Demetra, centrale nelle tradizioni eleusine, e considerata la protettrice delle ‘’leggi sacre’’.
Il personaggio di Perez è indefinito. I colori che lo immortalano sono a tratti sfocati, a tratti sgargianti, a tratti dominati da chiaroscuri. La sua forza, in ultima analisi, deriva dalla consapevolezza di chi lo guarda. La consapevolezza che ci troviamo davanti ad un essere umano. La più strana ed insolita creatura del regno animale. L’essere la cui essenza è permeata di nostrani comportamenti e stravaganti abitudini. Solo un piccolo granello di sabbia tra le montagne dell’umanità; ma un granello che vale la pena di ricordare.
Un uomo che nasconde la Profondità sotto le apparenze.
I particolari inconfondibili poi sono un po’ come le impronte digitali di un film, che lo rendono unico davanti agli occhi del mondo, ma non a quelli della natura. Tali particolari sono sicuramente il nome del protagonista, Demetrio, che richiama alla mente un’immagine di grecità, cioè della cultura che ha donato al mondo la tragedia; la città sempre avvolta da una luce scura e tetra che si riflette nei palazzi; e naturalmente i personaggi secondari che si muovono ancorati allo sfondo della vicenda, perché Perez è solo il primo di una lunga sfilza di personaggi che affrontano la vita come una parata di carnevale. Direi che Perez è Primus Inter Pares (dal latino ‘’primo tra i pari’’).
La figura di un camorrista come Francesco Corvino, punta sulla facciata di normalità che Marco D’amore (noto al grande pubblico per la serie tv Gomorra) ha saputo trovare in questo personaggio. Un uomo borghese, educato, cavaliere innamorato per la sua dama (Tea, la figlia di Perez). Un uomo che indossa sempre giacca e camicia, come se la camorra fosse un datore di lavoro come tanti altri. Un personaggio che subisce una metamorfosi durante la pellicola, e ci porta a dubitare di tutto. Noi non sappiamo con certezza chi è Francesco Corvino. Nella prima parte del film sembra un brav’uomo, di quelli la cui unica pecca è una famiglia che non si sono scelti. Ma le sue azioni nella seconda parte del film sono troppo ambigue. La sua ‘’maschera di normalità’’ (per citare Ellis) sembra essergli caduta dal volto. Iniziamo quindi a domandarci se alla fine, dopotutto, non sia stato proprio lui a trucidare le persone di cui lo accusano.
Ignazio Merolla è un collega di Perez, l’unico amico che questi sembra avere nella tormentata città degli specchi dove vive e lavora. Tra di loro c’è uno strano rapporto fatto di complicità e disagio. Merolla, anch’esso avvocato della feccia criminale, conduce (sicuramente da quando è morto il figlio) una vita borderline, al confine fra la via esistenziale e la sopravvivenza forzata del corpo. È come Perez un abitante del regno dello squallore, e la prova sta nei pochi fotogrammi che ci mostrano lo stretto monolocale dove abita, consumato dalla sporcizia, dal disordine, e da pile su pile di giornali ammucchiati e cartoni della pizza accantonati. Sembra un uomo che ormai non ha più niente da chiedere alla vita, eppure vive e domanda ancora. Dalle sue conversazioni e i modi di fare all’inizio della pellicola sembra solo un uomo rozzo, disinteressato e povero d’animo; ma subito ci accorgiamo di questo strano legame intenso che lo lega all’amico Demetrio. A dispetto della vita di tutti i giorni, tiene all’amico, tanto da essere pronto a partire nella notte per un’avventura pericolosa come quella che gli propone Perez. Cicerone non avrebbe potuto mostrare un canone migliore per descrivere un concetto tanto puro d’amicizia spassionata. Verso la fine della pellicola lo vediamo fare un gesto avventato quanto risoluto. Lo vediamo mettere fine alla propria vita, inneggiando al nome dell’amato amico. Un gesto tragico per la vicenda, ma liberatorio per il personaggio. Ci rammarica una tale fine, ma ci rincuoriamo quando vediamo con quanta dedizione Perez rende omaggio al caro amico.
La figlia di Demetrio Perez, è senza dubbio tra i personaggi più conturbanti ed irritanti della storia. La vediamo sfrontata ed inferocita contro il padre, e non ci capacitiamo delle sue azioni. Avvertiamo però che sotto l’epidermide di un tale personaggio femminile deve nascondersi qualcosa di potente che ci scuote. Del resto anche il nome della ragazza appartiene ad un canone grecista, ma in tal caso la sua etimologia è più interessante. Ci sono infatti due possibili origini: la prima (spigataci dello stesso Perez) deriva dal greco ‘’Thea’’, la versione femminile di ‘’Theos’’, cioè Dio, facendo assumere a Tea il significato di Dea. Però v’è anche un’altra origine, ancora più stimolante dato il personaggio, e cioè ‘’Teia’’, un’antica figura mitologica. La cosa curiosa è che Teia era una “titadine”, cioè una delle forze primordiali del cosmo, dotata di poteri mostruosi. Nei suoi modi ricorda un altro personaggio femminile passato alla storia grazie alla penna di Bertolt Brecht: mi riferisco cioè a Virginia, la figlia di Galileo Galilei nella famosa opera teatrale ‘’vita di Galileo’’ che ripercorre (con qualche licenza poetica) la vita travagliata del grande scienziato italiano del 600. Sicuramente, sforzandoci un po’ potremmo trovare dei paralleli tra i personaggi di Perez e Galileo (almeno per quanto riguarda certi aspetti); ma molto più interessante è analizzare le somiglianze tra Tea e Virginia. Nel testo di Brecht, la figlia di Galileo, oltre ad essersi fidanzata con un uomo assai antipatico a Galileo (altra similitudine), tratta il padre con saccenteria ed antipatia, ignorando i sacrifici di questo. Infatti, nella versione di Brecht, Virginia finisce col diventare la carceriera del padre. In questa pellicola però, alla fine, Tea trova il modo di redimersi nei confronti del padre. La scena più indicativa di tale ‘’femme fatale’’, è quella che ci mostra, durante la sua festa di compleanno, una Tea che urla in faccia al padre senza alcuna inibizione. Gli ordina di andarsene, difronte ai molti ospiti imbarazzati della festa. Un’immagine angosciante, violenta, inquietante in tutta la sua incomprensione, che viene magicamente trasmessa dal volto sempre immobile e paralizzato di Luca Zingaretti.
Infine v’è il mio personaggio preferito: il Boss Luca Buglione, interpretato da un sorprendente Massimiliano Gallo (reduce del mestiere), che già in ‘’Fortapàsc’’ di Marco Risi aveva dato prova del suo talento nell’interpretazione di tali personalità. Questo soggetto sfata finalmente l’ormai banale e stereotipata figura archetipa di capo clan, che in genere è rappresentata in scenari di questo tipo. Buglione ci appare come un uomo saggio, paziente, razionale (fin dove possibile, cioè fin dove è concesso ad un animale come l’uomo), cauto, stratega, lungimirante, carismatico, scaltro e persuasivo, cioè un perfetto giocatore di scacchi, armato più di lingua e cervello che di ‘’pistola e palle’’. La scena più interessante è quella in cui Buglione si fa accompagnare in procura da Perez per costituirsi. Una volta varcata la soglia, estrae lentamente una pistola (un revolver a canna corta cromato) annunciando ‘’sono armato’’, facendo scattare immediatamente gli agenti che lo immobilizzano e lo ammanettano per scortarlo dove di dovere. Lo deridono e lo insultano per un gesto così avventato (entrare armato in una procura); ma lui non sembra essere colpito dalle provocazioni. Il suo sguardo fisso e serio verso Perez dice qualcosa. Credo che niente possa riassumere meglio l’animo di un tale protagonista più delle sue stesse parole:
‘’io faccio il lavoro che faccio, e me lo sono scelto, ma se io sbaglio mi cancellano dalla faccia della Terra’’.
Nell’analizzare una qualunque opera cinematografica si deve sempre tenere conto del ‘’coefficiente emotivo personale’’. A prescindere dalla qualità della storia e della sua forma, la pellicola potrà colpirci o deluderci per ragioni esclusivamente proprie. Le dimensioni, l’importanza e l’impatto di tale coefficiente naturalmente varia da persona a persona, ma è sempre presente in ognuno di noi. È forse grazie ad esso che siamo in grado di apprezzare la bellezza di un’opera artistica. Commuoversi e scandalizzarsi derivano da tale coefficiente, e per questo esso è estremamente prezioso. Ma per constatare e definire qualunque cosa, dobbiamo stare sempre attenti a riconoscerlo e a trattarlo nel dovuto modo.
Era importante precisare questo, affinché io potessi esprimere senza incomprensioni il mio coefficiente emotivo.
È stata una improvvisa gioia riconoscere certe ambientazioni. Quando un film è girato nella città in cui vivi, hai vissuto, o che conosci particolarmente bene e che ti è cara, è sempre un’emozione ritrovare i luoghi che si conoscono e che sono popolati dai ricordi personali. È come un collegamento che fa si che lo spettatore faccia parte dello stesso film: colma il divario tra la realtà empirica e la finzione cinematografica. Confonde l’arte immaginaria della pellicola e la verità dei luoghi che sono anche i tuoi. È come se un’associazione di pensieri nel subconscio, partendo dall’assioma che certi luoghi esistono nella realtà, approda all’intuizione che anche le vicende che ci sono mostrate potrebbero in qualche modo essere reali o realizzabili . In qualche modo ci si sente incomprensibilmente parte del film; desiderio di ogni spettatore. Paradossalmente, riusciamo a sfuggire alla realtà soltanto quando incappiamo in qualcosa che sia ciò di più simile alla realtà dalla quale vogliamo evadere, se non per un piccolo e a tratti indistinguibile dettaglio che ci fa sognare. È come se cercassimo una riproduzione in scala del nostro mondo, un modellino in miniatura di casa nostra, identico nella forma tranne che per un dettaglio: che non lo sia realmente.
Essendo io stato sia all’interno del palazzo di giustizia di Napoli, che nelle aule dell’università Federico II, è esattamente questo che ho provato quando mi sono reso conto che una volta varcata l’entrata del tribunale di Napoli, il protagonista si trova in realtà trasportato all’interno dell’università frequentata da me stesso, adibita a sembrare un luogo di giustizia. Io che conosco entrambi i luoghi, posso perfettamente constatare che in effetti sono molto simili per struttura e stile, e forse, e dico forse, anche io sarei caduto nel mirabile trucco cinematografico se Demetrio Perez non fosse passato proprio davanti alle aule dove io ho trascorso infinite ore di lezione universitaria.
I palazzi di vetro, nel buio della notte, sembrano invisibili. Eppure sono là, tra le vite difficili di una città come Neapolis.
Naturalmente il Dubbio regna incontrastato tra le vicende e i personaggi di questa storia. Sembra quasi banale ricordarlo, ma ometterlo sarebbe imperdonabile.
Nello sguardo dei protagonisti, l’ultimo fotogrammo cattura una domanda inespressa:’’quale sarà il prossimo viaggio?’’. Perché infondo lo sappiamo tutti che c’è sempre un nuovo viaggio da affrontare, con tutti i suoi paradossi e le sue incognite. Con tutte le stranezze, le domande, le ossessioni, le paure e i desideri.
Nella sua fragilità e disperazione Demetrio Perez è più energico, forte e coraggioso di chiunque altro. Francesco Corvino è più crudele di ciò che sembra. Il boss Buglione è più umano e geniale di quanto noi siamo abituati a pensare. La figlia è meno innamorata e più confusa di quanto ella stessa crede.
Niente è ciò che sembra nella città degli specchi.
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