Le purghe del Sultano

“Andate in piazza e difendete la democrazia! La Turchia ha bisogno che il suo popolo la difende dall’autoritarismo dei militari!”. E così è stato.

Il popolo è sceso in piazza e sfidando i carri armati ha bloccato il golpe. Il colpo di stato è fallito. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha mantenuto le redini del potere. I militari hanno perso e la loro congiura si conclude in un nulla di fatto.

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Da un punto di vista puramente teorico e formale la democrazia ha vinto: ovvero il risultato delle scorse elezioni presidenziali del 2014 è stato mantenuto. In quell’occasione Erdogan aveva avuto un buon 52% di preferenze al primo turno, diventando presidente fino al 2019.

Dopo essere stati onesti e aver riconosciuto la legittimazione popolare al presidente turco bisogna mantenere la strada dell’onestà ed evitare la classica ipocrisia post colpo di stato fallito di cui però si sperava il buon esito. Probabilmente molti speravano in una fine diversa: in Turchia i militari più volte hanno rovesciato governi secondo loro in odore di autoritarismo e lo stesso volevano fare con Erdogan. Questa volta però non ci sono riusciti, e le cose sono, per usare un eufemismo, un po’ peggiorate.

Erdogan già nel 2013 è stato accusato di autoritarismo durante le repressione delle proteste di Gezi Park da tutte le autorità occidentali. Successivamente molti osservatori internazionali iniziavano a preoccuparsi del crescente ruolo della religione nella politica del paese del Bosforo. La laicità era stata imposta da Ataturk, il padre della moderna Turchia, per modernizzare il paese, ma il partito di Erdogan, l’Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), non ha mai nascosto le sue forti radice religiose, testimoniate anche dalla vicinanza ai fratelli Musulmani. Questo tipo di politiche ha raffreddato i rapporti con l’occidente e in particolare con l’Unione Europea, rallentando se non bloccando il processo di ingresso turco. L’accusa della Russia di traffici con l’Isis ha messo ancora più in crisi il governo di Ankara, salvandosi in corner con gli europei proponendosi come risolutore della crisi dei migranti. L’Europa ha in pratica pagato la Turchia per bloccare i migranti siriani, incurante di verificarne poi l’effettivo trattamento.

La politica liberticida di Ankara era già conosciuta ai leader europei, ma gli interessi elettorali hanno prevalso sui valori democratici e l’appoggio ad Erdogan non è mai mancato. Già nel 2014 Reporters without Borders classificava la stampa turca come non libera. L’allarme dei giornalisti turchi aveva raggiunto persino Perugia, dove il 7 aprile 2016, per l’International Journalism Festival, alcuni tra i principali giornalisti della Turchia erano stati invitati a testimoniare la situazione di decrescente libertà dei media. La capacità di Erdogan di controllare i mezzi d’informazione era al centro del dibattito, e centrale si è mostrato durante il fallito golpe. Il Sultano –per dirla con i toni della stampa irriverente- chiama il popolo alla difesa della democrazia tramite una diretta televisiva dal suo cellulare. Miracoli della tecnologia!

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Salvo Erdogan, salva la democrazia, la sua democrazia. È vero che è stato fatto salvo il potere democraticamente eletto, ma il giorno dopo il golpe, le libertà degli stati di diritto hanno abbandonato l’Anatolia. A parte le crude immagini di militari golpisti sgozzati per strada ciò che impressiona sono i numeri delle epurazioni effettuate in ogni ambito della vita pubblica. Certo, superare il maestro Stalin in questo campo appare difficile, ma Erdogan ce la sta mettendo tutta. Bisogna pur riconoscerglielo. I numeri sono elavatissimi, in crescita e inquietanti. Più di 6000 gli arresti tra i militari a cui si aggiungono migliaia di arresti di civili o di personalità legate ai golpisti. Ma le purghe del presidente non colpiscono solo coloro che hanno tentato di rovesciare il governo, ma tutta l’opposizione e le fonti del dissenso, anche democratico, al presidente. Sono state chiuse 24, tra radio e televisioni, e le libertà fondamentali sono state ristrette con l’adozione dello stato d’emergenza.  Ai tagli imposti ai media si aggiungono le epurazioni dei vari dipendenti pubblici, tra cui: 2745 magistrati; 30 prefetti su 81; 7899 poliziotti; 614 gendarmi; 47 governatori provinciali; 257 impiegati della Presidenza del Consiglio; 393 impiegati del Ministero della Famiglia; 1500 dipendenti del Ministero delle Finanze; 15200 insegnanti pubblici e 21000 docenti privanti a cui è stata revocata la licenza; 1577 decani nelle università; 492 imam; 100 agenti dei servizi segreti; tutti i professori universitari, persino quelli all’estero.

È un elenco lunghissimo e che probabilmente continuerà ad allungarsi nei prossimi giorni, ma dà l’idea della vastità dell’azione repressiva del Sultano, ora più potente di prima.

Il popolo turco giorni fa è sceso in piazza per difendere la democrazia, ma poi ad essa si è inferto il colpo finale dopo anni di maltrattamenti.

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