Le scene sono simili a molte altre già viste e già diffuse dai vari mezzi di comunicazione. Un uomo spara, la gente fugge o muore. L’attenzione è d’obbligo e le maratone televisive iniziano a sconvolgere i palinsesti. Collegamenti dal posto, video presi dai social, interviste a chi era lì o nelle vicinanze, sociologi, psichiatri e giornalisti danno la loro opinione e la routine familiare prosegue intatta.
La sparatoria di Monaco molto probabilmente non ha nulla a che fare con il terrorismo. Anzi, sembrerebbe -ma il condizionale è d’obbligo- che l’attentatore sia stato ispirato dalle sparatorie scolastiche si matrice americana. Ma questa è un’ipotesi che si ricollega e si appoggia su un video in cui l’attentatore, diciottenne nato a Monaco da genitori iraniani, dichiara la sua vendetta per anni di esclusione e bullismo. Solo nelle prossime ore però potrà dirsi di più e con maggiore certezza.
Nonostante l’incertezza e le ombre su quanto accaduto in Germania, la lunga scia di sangue iniziata violentemente il 7 gennaio 2015 nella redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, ha cambiato la percezione dei nostri tempi violenti.
Gli attentati, le sparatorie, le morti, stanno diventando tristemente una parte della cronaca quotidiana del giornalismo europeo. Ciò che anni fa era l’eccezione, l’evento che consegnava un anno alla storia e al ricordo di un dolore comune, oggi si sussegue così rapidamente da farne un elemento della vita di ogni cittadino d’Europa.
Siamo assuefatti al terrore. Le immagini crude, di morte e distruzione, affollano i nostri schermi, siano essi televisivi o del cellulare. La preoccupazione è istantanea e passeggera, subito sostituita da altri pensieri: la cena, organizzare la serata, riposarsi per poter poi svegliarsi e andare al lavoro, un film in prima serata, una delle tante amichevoli estive della squadra del cuore.
Non credo sia segno di scarsa pietà o di una indifferenza verso la vita e la sofferenza altrui. La costanza con cui la violenza è entrata nelle nostre vite ha fatto sì che ci si abituasse, che si trovasse un’altra maniera per affrontare le tragedie: la normalità.
Si continua a viaggiare, ad uscire di casa la sera, ad affollare piazze, bar, locali di vario genere, stadi e concerti. L’attentato diviene qualcosa di simile alla catastrofe naturale, imprevedibile e possibile. Qualcosa che può accadere, da mettere in conto. È una situazione alquanto deprimente, e credo che nessuno possa dire il contrario.
Ma l’obbiettivo del terrorismo internazionale è proprio quello di impedirci di vivere serenamente la quotidianità, ledendo la nostra libertà.
Personalmente non sono disposto a cedere su questo fronte: continuerò a viaggiare, ad uscire la sera, a frequentare luoghi affollati -se meritevoli- a conoscere persone, culture e luoghi diversi dalla mia Umbria.
Non si può rinunciare ad una libertà ottenuta a costo di milioni di morti. Non si può rinunciare alla libertà. È quello che la cultura della morte e del terrore proclama. Sarebbe una sconfitta per l’Europa: la sua definitiva resa al terrore.
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