La vita non è un film. Questa è una di quelle frasi che utilizzo per identificare le persone insopportabili. E’ certo che la vita non è un film, ma perché mai vorremmo che ci assomigliasse? Cosa detengono i personaggi di una storia narrata, che sia di cinema, di letteratura, di teatro, o quant’altro che noi cerchiamo e irrazionalmente bramiamo?
Le caratteristiche di un film sono quelle di qualsiasi opera d’arte: essere fini a sé stesse. Schopenhauer affermava che l’uomo che si appresta allo studio dell’opera d’arte ne viene completamente assorbito, si tratta di un’estasi, di un rapimento dell’osservatore, che tuttavia al suo dissolversi non lascia niente a chi ne ha fatto parte.
Schopenhauer intendeva tale nullificazione del fine dell’arte dal punto di vista educativo: si tratta del primo stadio nella scala della conoscenza, prima della carità e dell’ascesi. Anche Kierkegaard ipotizzò una scala simile ed il suo primo stadio della conoscenza era la vita estatica, la quale si esplica tramite l’arte nel personaggio di Don Giovanni. Don Giovanni è un’esteta, Kierkegaard vede la sua infinita ricerca come una lunga strada per la disperazione, Camus, più lungimirante, crede invece che Don Giovanni non sia affatto ignaro della sua condizione, ma, a differenza di altri seduttori che invece pullulano il mondo vivendo nell’ignoranza, è del tutto conscio della sua condizione, eppure gli sembra di vedere al fondo della sua ricerca un barlume della pace che è il simbolo della donna perfetta ma che lui sa su questa terra impossibile. Come quel personaggio di Cent’anni di Solitudine che, partito per la guerra per evitare il suo amore impossibile, riscopre invece nel letamaio del campo di battaglia proprio il volto della sua donna.
Siamo dunque degli esteti nel nostro desiderare una vita dietro le telecamere?
La risposta è molto più complessa. A chi non è mai capitato, ripensando ad una situazione del passato, di scoprire il proprio ricordo in terza persona? Proprio come se ci fosse stata una telecamera che ci riprendeva. Lo stesso accade nei sogni: a volte capita di immaginare sé stessi come se si fosse degli estranei.
Estranei: questa è la parola giusta. Lo Straniero è il titolo del romanzo più famoso di Camus e per alcuni è considerato la rappresentazione diretta della filosofia esistenzialista da lui elaborata, rivisitata dagli autori precedenti e poi trasformata in personaggio.
I personaggi dei film e dei romanzi abitano in un mondo diverso dal nostro, sono degli estranei ai nostri occhi. Eppure, che si tratti di un racconto fantasy o realista, l’universo immaginario non si distacca mai troppo dalla realtà del nostro mondo, anzi forse proprio nel tentativo di allontanarsene se ne avvicina maggiormente. Ci lamentiamo nel guardare un film di bassa lega che la recitazione sia mediocre, o che manchi di credibilità. Ma è questo il punto: una storia immaginaria non deve avere credibilità, anzi non può averla. Se la recitazione è scadente ci impedisce di immedesimarci tranquillamente nei personaggi, ci allontana dall’illusione che quello che stiamo guardando sia qualcosa di reale e inevitabilmente non ci piace. Cosa diversa vale invece per il teatro: questa forma d’arte utilizza la falsità della rappresentazione come manifesto della propria forma; non ci si fa scrupoli nel mostrare personaggi che nei loro stessi movimenti testimoniamo di essere finzione, di essere lontani, di essere l’eccesso. L’eccesso è un piacere di cui il nostro mondo non può godere. Per quanto un uomo cerchi di spingersi ai limiti dell’opposizione dei contrari, cercando di disarmarne l’ambivalenza, si ritrova sempre al centro della battaglia, senza possibilità di muovere un passo. Se le cose nel nostro universo non possono essere né completamente bianche, né completamente nere, invece nel mondo di finzione non possono che presentarcisi in questa maniera.
Non dovremmo a questo punto essere aver già capito che il mondo di finzione non ci appartiene e non dovremmo allora smettere di illuderci che sia ancora possibile?
Quando si è nel periodo della crescita e si fanno le prime esperienze di vita, in particolare si viene in contatto con i primi dispiaceri, si è inevitabilmente segnati: in quel momento per la prima volta la vita ci appare per come è veramente e l’individuo non può più tornare ad essere bambino. In questo periodo capita che il ragazzino scopra piaceri inattesi, scopre la malinconia. Egli ha mosso un primo passo verso la conoscenza di sé: la malinconia è un mezzo potentissimo per l’analisi psicologica, ma anche per quella filosofica, così come anche la nausea e l’ansia (cose che difficilmente il bambino prova prima di essere almeno cresciuto un po’). Nasce l’amore per le cose tristi e ci pare, in un primo momento, inspiegabile ed alquanto abominevole. Per una coscienza che non ha mai avuto modo di soffrire effettivamente è difficile non trovare repellente la bellezza del dolore. Ma il dolore simboleggia qualcosa di cui intuiamo un’ombra e che non riusciamo ancora a comprendere completamente. Innanzitutto ci rimanda alle altre persone: l’esperienza della condivisione del dolore è una delle più meravigliose che l’uomo possa provare; successivamente il dolore ci riporta su noi stessi e ci divide a metà, o almeno, ai nostri occhi ancora inesperti, ci sembra di essere stati divisi a metà. C’è la parte che soffre e la parte che si analizza. Perché soffro? Spesso c’è una ragione, ma altre volte no ed in quel caso la strada è più facile. Mi appartiene davvero questa sofferenza? Sembrerebbe di no. Sartre afferma che a volte la vera sofferenza sta nel non riuscire ad immedesimarsi completamente nell’idea che abbiamo di essa, piuttosto che nella sofferenza in sé, di non riuscire a viverla come vorremmo. I personaggi di un libro a guardarli bene sembrano descritti e giustificati proprio attraverso il modo in cui sentono: se provano dolore, questo li pervade completamente, se sono vittoriosi, se hanno appena salvato la bella del racconto, la loro anima d’inchiostro esulta di gioia. Noi non siamo capaci di tutto questo coinvolgimento. C’è chi si oppone? Si, è vero: siamo ancora capaci d’illuderci. Ed è questo forse il momento più importante della vita d’un uomo: deve scegliere di fronte alla sua anima frantumata se accettare la verità della propria condizione di fuggiasco, o la falsità della sua corona. L’uomo non è padrone in casa propria. E’ tuttavia legittimo e anzi, clinicamente sano, essendo tale scelta riproposta in continuazione nella vita, che l’uomo saggio scelga bene le proprie battaglie e non si lasci distruggere dal peso della propria verità.
Quando siamo tristi vorremmo vivere la nostra tristezza con grandi scazzottate con sconosciuti nei bar, con alti momenti d’amicizia in cui ci si impegna a dire tutta ma proprio tutta la verità, con grandi ubriacature, con lacrime che non siamo mai capaci di versare.
Con la felicità è più difficile perché ci si presta meno all’intenzione dell’analisi e anche perché in questo mondo è molto più facile trovare tristezza quando la si desidera, piuttosto che allegria. E’ esattamente la lezione di Svevo quando affermava che la salute non interroga sé stessa.
Ecco la vera domanda: siamo quello che siamo o quello che dovremmo essere?
Parabola del discorso sulla pienezza del personaggio si trova nel Truman Show . In questo caso il personaggio che l’intero mondo segue sul proprio televisione non è finto, ma non sa di essere un personaggio. Ma è o non è in fondo un personaggio? E’ esattamente la croce che il protagonista si porta sulle spalle e la sua scoperta è una liberazione. Ma perché le persone guardano Truman? Cos’ha che a loro manca? In realtà niente: è un essere umano come loro, lo show è solo nella loro testa. Se il protagonista non sa di essere un attore, inevitabilmente il film è in chi lo guarda.
Crediamo costantemente di avere amici e familiari di cui conosciamo per filo e per segno ogni vezzo del carattere. Su di un estraneo è facile illudersi, seppure il volgo voglia affermare che la prima impressione sia quella buona, ma su di un genitore, qualcuno che conosciamo da anni, potremmo credere di conoscerli meglio di quanto conosciamo noi stessi. Niente di più falso.
Capita a volte di dire ad un amico: “mi conosci meglio di quanto io conosca me stesso”. Doppiamente falso. La maggior parte delle ossessioni dirette contro una persona sono dovute al fatto che si trapianta su di un individuo l’idea che ci siamo fatti di lui, che crediamo con tutte le forze che gli appartenga e quasi glie la cuciamo addosso.
Se i film, se i romanzi, se la nausea, la malinconia, l’ansia, la relazione con amici e parenti non sono ancora bastati a svegliarci dalla nostra vita immaginaria, esiste ancora una cosa in grado di farlo, forse la più potente di tutte. E’ l’amore.
Bradamante si innamora del Cavaliere Inesistente. Anche quando a lui cade l’elmo e dovrebbe esserle chiaro che non c’è persona dentro l’armatura, lei ancora non capisce e continua ad inseguirlo; il Cavaliere invece sa di essere inesistente e forse proprio per questo scappa da lei.
L’amore è in grado di dirci molte cose sull’altra persona, ma mai quanto ce ne dice su noi stessi. Questo ovviamente è dovuto al fatto che è l’amante a beneficiare maggiormente di questo sentimento e non l’amato, da Platone a Mann, fino alla fine dei tempi.
Il protagonista della Nausea e la donna con cui ha avuto una relazione si sono lasciati, ma non sanno neanche loro perché. E’ capitato. C’è un impedimento che si è posto nella loro relazione, nel loro amarsi , che li rende adesso estranei e confidenti allo stesso momento. Quando accade una simile situazione forse le due persone, che si credono tanto lontane, non sono mai state tanto vicine e non se ne rendono conto: questo è la loro vera disgrazia. Sentire l’amore e non aver modo di trattenerlo, di afferrarlo, sentirsi estranei, essere nauseati dall’altra persona: capita, è la vita. Convivere con la nausea è un altro paio di maniche.
Attraverso tutta la vita l’uomo scopre che la vita immaginaria non gli è possibile. Ma ancora uno scalino è da scendere verso sé stessi. Egli scopre in ultimo di essere davvero in un film, di vivere il romanzo della sua vita che ha tanto desiderato avverarsi, almeno per metà; il suo dolore arriva quando scopre di vivere nella metà sbagliata, di essere l’unico in tutto il mondo che passa per i suoi occhi ad essere tagliato fuori dalla vita immaginaria che formula con la testa. E’ il grande romanzo che fugge via dal suo autore.
In ultimo voglio concludere dicendo che Edipo ha scontato la sua pena a malincuore. Non è necessario per l’uomo negarsi il piacere dell’illusione quando sa che non può nuocere in alcun modo: sta solo a lui lo scommettere. Cosa gli porterà maggior frutto: l’illusione o la verità? Egli non ha che da decidere in base a sé stesso, l’utilitarismo non ha qui alcun fine d’esistere.
Lascia un commento