Derby con cadavere

Morire d’infarto, mentre si è intrisi di passione, con l’adrenalina che sale e sale ogni minuto di più, ogni volta che la palla si avvicina alla porta avversaria, anche se non riesce a entrare, seguendo una cosa come il calcio che ti piace da tutta una vita, devo dire che è una bella morte. In mezzo a veri tifosi come te, che urlano, insultano e piangono, tu con loro, per supportare la tua squadra del cuore, unico obiettivo da quando avevi sì e no vent’anni e che per tutto il tempo, con un economico abbonamento, aveva riempito i tuoi fine settimana. Chi non vorrebbe andarsene così? Ci metterei la firma. In una partita come quella di questo sabato settembrino in cui un incontro di pallone è il giusto inizio per allentare la tensione della fine dell’estate e iniziare un ennesimo e nuovo inverno. Le voci dei tuoi compari, simili a te durante la settimana ma ancora più vicini e uguali con addosso la stessa maglietta e sciarpa bianco rossa, quelle voci di sfida, i gratuiti insulti e gestacci richiamanti la madre, le sorelle e i parenti tutti unite in un groviglio di altrettanti versi indicanti il pube, queste voci, dicevo, tutta quest’allegoria ti appartiene da tempo e ti senti libero e vero umano nel mondo che non ha più regole; racchiuso tra gradinate e cancelli di ferro, sono l’habitat perfetto, in alto solo bandiere e cori. Quando arriva l’ottantesimo minuto si è agli sgoccioli. Un altro gol e quel dannato pareggio miserabile potrebbe cambiare tutto, solo uno e si passa alla storia di un giorno qualunque, ma non per te. Denti digrignanti, occhi di sangue e respiro affannato seguono la sfera di cuoio e sperano in un miracolo. A un tratto, hai le gambe molli, mani e braccia deboli seguite da un irrigidimento improvviso nell’istante successivo. Pallore e malessere ma comunque continua partecipazione fino al momento in cui ti accorgi di scivolare lentamente in un baratro scosceso e buio. La tribuna difronte a te cala prospettiva e tu cali con essa coperto e circondato dalle spalle della gente in piedi accanto a te che non se ne rende nemmeno conto e continua a vedere lo spettacolo. L’unico appiglio è solamente il duro cemento del posto prenotato che schiaccia la schiena; tocchi la fredda superficie e poi, buio.

La partita tra Perugia e Ternana (Terni), i due antichi rivali, da sempre nemici e furiosi contendenti di un ormai storico e smarrito confronto e torto, era iniziata come un lungo via vai di persone tutte intente a parcheggiare, dove meglio, le proprie vetture. Marciapiedi, viali, divieti di sosta, dai paesi vicini che circondano lo stadio Renato Curi. Poi giù, tra le dure discese della città, in una lunga e viva sfilata tra bambini, padri, vecchi, ragazzi, pensionati, impiegati, ristoratori, preti, ciclisti, civili, incivili, sociali, anti sociali, salutisti, drogati, alcolizzati, tutto ciò che c’è di più vario e consistente in una comunità dedita al calcio e fedele a quello stemma, a quel grido, a quel nome di città. Processione d’individui attraversò gli alti cancelli di ferro rosso e le gradinate erano subito invase. Nessuna distinzione quotidiana, ma nello stadio, quel sabato, i quattro spalti dividono gli uomini in quattro diverse categorie. La gradinata un po’ spaesata dei tifosi avversari che, sebbene lo scarso numero, combatte e tiene alto il suo credo, la sua fede al suono di FERE, FERE, FERE….. La tribuna Perugina, zona tranquilla e abbastanza gremita della fascia una po’ snob e ricca della città; come tanti papi e signori quattrocenteschi, si godono lo spettacolo delle tre, come in un teatro, non si scompongono ma non si tirano indietro in caso di contestazioni. Nella traiettoria, proprio davanti alla tribuna coperta, la gradinata già gremita è compiaciuta dalla buona vista del campo a un prezzo di biglietto decente, né troppo alto o troppo basso ma il giusto prezzo per umili partecipanti e spettatori che non vogliono spendere troppo o fare i signori come i compari difronte né ritrovarsi a saltare come tante bestie al rullo di tamburi come invece fanno i più agguerriti e violenti vicini della famigerata e temibile curva nord. Un blocco unico di pietra rovinata e corrosa dal costante passo dei tifosi, covo degli ultras che invece di guardare solo la partita, preferiscono accostare la visione a un unico boato intimidatorio, violento, crudo, razzista, e selvaggio rivolto ai nemici, rivangando vecchie glorie o pestaggi remoti. La vita del tifoso è composta anche da certi episodi, certi stili di vita che movimentano un incontro di questo genere. Tanto atteso e sperato quanto fastidiosamente pauroso e ingannevole.

La partita poté avere inizio non appena, squadre posizionate, erano pronte al massacro corpo a corpo; sugli spalti si procedeva con un massacro corale e articolatorio. Per tutto il primo tempo, il Perugia non ha fatto che seguire su e giù il pallone senza mai avvicinarsi realmente alla porta della Ternana che invece disputava il match con abili giocatori che tenevano testa a quelli avversari. Calma piatta. Qualche calcio d’angolo, cartellino giallo di tanto in tanto ma, fino alla fine della prima fase, un lento gioco, appesantito dal continuo brusio indistinto delle voci degli spettatori e un cielo plumbeo che pareva rallentare ogni cosa. Nei quindici minuti d’intervallo, l’attesa diventava impaziente ma sempre con quella strana calma che pervadeva lo spazio circostante; si attendeva il secondo tempo ma tutti con l’inconfessata speranza che non iniziasse mai, come se si fosse già capito come sarebbe andata a finire. Giocatori nuovamente in campo, e ora è vera lotta. Uno scontro fortunato mette, con il primo gol, la Ternana in ginocchio e il Perugia sembra essersi ripreso. Potrebbe benissimo continuare a giocare senza tanto impegno ora, basterebbe non far avvicinare alla porta gli avversari e arrivare al novantesimo in semplice placidità. Ma l’avversario ternano si sente attaccato; per l’onore della squadra e del manipolo di guerriglieri sulle gradinate non cessa di battersi e, tre minuti dopo il gol del Perugia, sente il dovere di fare un passo avanti. Un gol e pareggio. Urla, grida indemoniate da ogni dove. Persino quelli della tribuna sono in piedi lasciando andare per un istante il loro trono di plastica da sotto le chiappe. Ora si che è una bella partita e lo rimane per tutto il tempo tra tentati attacchi e falli. Poi, giunti quasi alla fine del match, l’adrenalina è a mille, ma ecco il fattaccio. Gente vicina si accorge di tutto e tenta di chiamare aiuto. Un uomo di circa sessant’anni si era accasciato a terra, circondato da centinaia di altri tifosi su quella gradinata, aveva sentito arrivare il suo finale nel momento in cui lo spettacolo non era ancora terminato e mancava tanto così. Gli uomini dell’ambulanza fanno l’impossibile per rianimarlo ma lo sfortunato tifoso era già andato.

Io me ne ero rimasto tutto il tempo seduto su quella sedia dura di plastica consumata senza tanto entusiasmo. Avrei voluto essere più partecipe, durante la partita, dopotutto, calcio o non calcio, era sempre il Perugia che stava giocando, la mia città, tutta in un unico campo. Ma dalla sera precedente e nelle ore successive, non potei fare altro che pensare a un mio caro e intimo amico che da neanche ventiquattro ore aveva perduto il padre, nella camera d’ospedale dove ormai viveva inchiodato a un letto. Il mio solo pensiero in quello stadio era di stargli vicino e sebbene mi sforzassi di dire battute o fare un po’ lo stupido, com’era mio costume, alla fine di quegli interminabili secondi la mia attenzione cadeva sempre sull’immagine di quell’amico e del suo triste destino. Non ci feci caso minimamente nel vedere gli infermieri dirigersi in tutta fretta verso il lato destro della gradinata. -forse hanno finito il loro turno- mi limitai a pensare, poi, minuti più tardi, dieci teste vicino a me si voltarono tutte da quella parte. Qualche istante ancora e lo stadio intero, anche i giocatori, guardavano da quella parte. Molti si alzavano e si abbassavano lasciandosi andare in ogni genere di commenti. Due amici che mi sedevano accanto si alzarono, anche loro curiosi di sapere cosa fosse successo ma io non pensavo al peggio, non lo penso mai, mentre altri già si facevano il segno della croce accompagnando il momento anche con una bestemmia bonaria. Poi la notizia che ci fosse stato un morto viaggiò subito, veloce sopra le altre file di uomini, e ne fummo sicuri solo quando sentimmo il mesto battere di mani provenire dai capi della curva nord; il rispetto per i morti è sempre sacro, specie quando si sta pareggiando e mancano pochi minuti, inutili per rimediare. La notizia è certa ma dalle panchine delle due squadre si decide di continuare lo stesso la partita. Ecco il finimondo. Ultras contro i cancelli che furono spalancati, e tutti gli altri modesti tifosi si alzarono in piedi inveendo contro i giocatori dell’altra e della loro stessa squadra. Minacce, accuse, altrettante bestemmie e gesti, tutto perché era irrispettoso continuare la partita con un morto fresco ancora sul luogo dove si era accasciato. Erano essenzialmente i tifosi perugini che non accettavano ciò; se fossero stati in vantaggio, non avrebbero certo reso celebre un uomo qualunque e la sua mitica scomparsa. Avrebbero voluto certamente finire la partita e vincere. Queste furono per un attimo le mie impressioni; in parte e molto ironicamente lo furono anche nelle ore successive. Era comunque vera tensione e a più riprese i capi ultrà fecero partire un lungo applauso che si estese fino alle gradinate avversarie. La partita fu completata da mesti passaggi e palleggi e il volto contrito dei giocatori li accompagnò dentro gli spogliatoi. Io rimasi silente, in piedi, rivolto verso la zona, dove prima c’era il malcapitato. Ne avevo abbastanza di morti e tutto quello scatenava il mio corpo, lo rendeva debole e instabile. Indifeso com’ero, pensai ancora al padre di quell’amico mio, poi all’uomo sulle gradinate. Quest’ultimo, certo di quello che dicevo e pensavo, aveva avuto una bella morte. Nato come uno qualunque in un semplice ospedale, se ne era andato sotto un fiume di applausi e nello stadio, dove si stava disputando l’incontro tra la Ternana e la sua squadra, la sua ragione di vita. Una fine inaspettata anche per lui che, in alcuni secondi, era passato alla storia come eroe del calcio e della tifoseria. Chi non vorrebbe andarsene così?! La mia unica decisione quel giorno fu quella di dover a tutti i costi esorcizzare quello stato di ansia e di amara sconfitta, derisione che solo la vita può lanciare contro il tuo lieto vivere. Per la strada che mi riportò a casa, ebbi l’impulso di tirar fuori dalla tasca sinistra dei miei jeans, il biglietto stropicciato di carta; era rimasto lì dentro tutto il tempo, distorcendosi su se stesso. Lo guardai, lo guardai per un lungo minuto, forse qualcosa di meno, e la sola emozione che poté presentarsi concreta sul mio volto fu quella di una risata; un riso nervoso e non spontaneo all’inizio ma che sentiva di poter fare di meglio mentre il tempo passava.


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