Kohlhaas – Il vero racconto di una storia di finzione

Nella scena iniziale di Kohlhaas, che si apre come una sorta di documentario, due uomini, membri di una troupe cinematografica, stanno discutendo del lavoro che li attende nei giorni che verranno, facendo un riepilogo di quello già svolto nelle ore precedenti. è notte, la stanza d’albergo è poco illuminata ma tutto sembra andare per il meglio quando una telefonata interrompe il momento di brio e felicità e uno dei due personaggi reali, non frutto di fantasia, è costretto a rispondere. Il giovane regista, Aron Lehman, sta cercando di girare un film imponente, un Kolossal medievale traendo spontanea ispirazione da un racconto appartenente proprio alla sua terra.

Kohlhaas, racconto scritto nel 1810 da Heinrich von Kleist, narra la vicenda del brandeburghese Michael Kohlhaas che nel suo viaggio verso la fiera di Lipsia viene fermato da una delle guardie del nuovo padrone delle terre sassoni, lo Junker von Tronka il quale decide di far passare il commerciante di cavalli ma ad una condizione: per far fronte alla mancanza di lasciapassare, lo Junker gli trattiene due delle sue merci, due stalloni, che Kohlhaas riavrà solo quando farà ritorno dalla fiera di Lipsia. Inutile dirlo, quando il commerciante si ritroverà nuovamente al cospetto dello Junker, troverà dinnanzi a se i due cavalli completamente magri e deperiti. Viene scacciato in malo modo dalla corte ma continua a chiedere umile giustizia e risarcimento per il torto commesso. Chiede aiuto ad alte cariche pubbliche, ad altri nobili e signori che non gli risparmiano nuove sconfitte, respingendo ogni volta la sua richiesta. Quando la moglie si recherà dallo Junker von Tronka, sperando di convincerlo a risarcire il marito, ne verrà fuori uno spiacevole equivoco che finirà con la morte della donna e la rabbia da parte di Kohlhaas, che nella sua sconfinata sete di giustizia, ora trasformatasi in odio e cruda vendetta, arruolerà un piccolo esercito di uomini per attaccare il castello di von Tronka e ucciderlo. Kohlhaas arriverà persino a devastare e mettere a ferro e fuoco la città di Wittenberg, pur di raggiungere il suo scopo e avere la propria vendetta.

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Aron Lehman in primo piano, dietro gli attori

Una storia che, Lehman, vuole a tutti i costi fare: quando riceve la chiamata da parte dei produttori capisce che non ha più fondi per completare il suo progetto eppure, appoggiato dalla banda di tecnici e attori, vere facce note della cinematografia e della TV tedesca, creerà uno stratagemma per consolidare il suo attaccamento all’opera. Come nel racconto di Kleist, però, anche qui Lehman, affascinato e troppo legato dal protagonista Kohlhas, si trova difronte a continue peripezie, insistenti problemi e contrattempi che pongono il giovane regista nella condizione di non sapere più quale strada prendere, in che modo prenderla; nella surreale posa, quasi kafkiana in alcuni momenti della pellicola, di non saper più tenere le redini della sua macchina, di non riconoscere più il vero dal falso, la finzione dalla realtà che si mescola nella sua testa e che a poco a poco esce fuori influenzando l’ambiente circostante e l’intera troupe, portando a momenti di vera comicità che non si riconoscono come totalmente veri né falsi in maniera completa, o solo accennata.

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Il cinema tedesco, in passato come ora, ha sempre trovato difficile separare nella sua totale presenza, il reale e la naturalezza degli elementi che ruotano attorno, da ciò che viene scritto su carta, dagli eventi fantastici ed estranei che costituiscono una sceneggiatura. Anche se ciò non viene sempre mostrato esplicitamente, la lavorazione che precede il prodotto finito è intervallata da momenti reali che si fondono con quelli della sceneggiatura, catapultando, non solo gli attori, ma i collaboratori tutti, produttore e regista compresi, nella trama e nella storia che stanno girando. Un esempio, affascinante, divertente quanto terribile e fuori dagli schemi, riguarda Werner Herzog; un regista che ha sempre puntato verso un cinema quasi documentaristico sebbene mai privo di sceneggiatura e una vera trama. Ciò che accade nel film ha avuto, svariate volte, ricadute nella lavorazione tanto da compromettere la stabilità del film. Se si pensa a “Aguirre, furore di Dio”, o “Fitzacarraldo”,lasciando stare le sue continue incomprensioni con l’attore Klaus Kinski, arrivate a volte anche a vere lotte e risse, Herzog ha sempre finito per dare troppo spazio alla sua immaginazione e al suo potere; in “Fitzcarraldo” fece veramente disboscare una collina immersa nell’Amazzonia dalla quale fece poi trascinare dagli attori e da veri componenti di tribù locali, un battello a vapore. Il film si concluse solo quattro anni dopo l’inizio delle riprese. In “Grido di Pietra”, l’alpinista tedesco, Stefan Glowacz, racconta in un’intervista come fu tremendamente difficile lavorare con Herzog. Glowacz, Herzog e un operatore, rimasero una notte all’interno di una grotta; fuori c’era una bufera ma Herzog, così racconta Glowacz, era eccitato come un autentico esploratore che non sa che c’era davvero il rischio di morire.

“Kohlhaas, oder die verhältnismäßigkeit der mittel”, cerca, non solo di dare ampio spunto e svago all’immaginazione ma anche dei confini e limiti quando questa non è più controllabile. Un film divertente in cui, come già detto, finzione e reale si mescolano. Un film drammatico dove finzione e reale spesso non combaciano e si scontrano. Un’opera che vuole, in un certo qual modo, fare un tributo a quel genere di cinema, a quelle avventure ed episodi che si intrecciano con la storia e con la realtà. Documentario, vera e finta recitazione, trame reali e improvvisazioni che si mischiano e fondono.

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La troupe intera in una delle prime scene del film

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