Una visita mattutina nell’antica Roma dove il palazzo del senato consente una breve seppur intensa visita a quell’Italia statalmente nei secoli compromessa che in questo momento vede una possibile disgregazione. Io e il mio compagno di visita guardiamo quelle movenze, quegli atteggiamenti da scolari in una classe non facile da gestire che, ironia della sorte, ci gestisce e governa. Che cosa fare se non riderci su. Esco, perciò, amareggiato, ma la quotidiana realtà della fame ti pone nella posizione di non pensare a nient’altro che a un posto caldo, una taverna, un ristorante, un buco dove poterci riparare dalla pioggia che cade incessante. Il Sushi, nostra prima e inaspettata speranza. I marciapiedi della stazione Termini offrono un’abbondanza di specialità etnico-gastronomiche allettanti e così diverse fra loro che non sai più se essere ancora nella città eterna o in una sacra città, di un’era appena scoccata. Quella pioggia, lo smog, i capelli fradici, le scarpe zuppe e l’acqua che scorre a rigagnoli sulla mia cravatta mi riportano alla mente il personaggio di Rick Deckard in “Blade Runner”; un cacciatore di cibo che non teme il maltempo e non osa fermarsi difronte a niente e nessuno.
Nella fase successiva si passa a un’atmosfera tipo “Grande Abbuffata”, dove per due ore e mezzo non si fa altro che mangiare senza permettersi di sprecare parole troppo inutilmente; giusto tre o quattro frasi prima della successiva portata. Entriamo alle 12.00 e usciamo intorno alle 15.00 così pieni che il minimo movimento potrebbe rappresentare una fatalità. Dopo un buon caffè ricostituente riprendiamo il treno verso casa.
Tale premessa serve per spiegare che, a parte la pioggia, non è stata poi una giornata da dimenticare. Tutt’altro. Rivedere Roma, e per un così interessante motivo lascia spazio per concederti belle speranze e un futuro roseo, ed io saluto il mio compare riprendendo la casa verso Perugia mentre la pioggia cade a fiumi sul parabrezza, ma io mi sento più sereno; in un intervallo che non sembra coincidere con il traffico infestante fuori dall’abitacolo. Il veicolo sembra un piccolo paradiso di plastica e telaio su quattro ruote.
Tornato a casa, parcheggio la macchina e mi accingo a salire le scale che portano al mio appartamento. Sono stanco, ancora bagnato e ho solo voglia di mangiare e farmi una doccia. Non appena mi siedo, mio padre e mia madre si staccano dal televisore che continua a rimanere accesso e si siedono intorno al tavolo. Mi domandano, -Com’è andata oggi?
-Bene- rispondo.
-è stato interessante?
-Molto interessante- aggiungo, e mi avvicino alla pentola per prendermi una razione di carne. Mio padre mi guarda e alquanto quieto mi chiede, -sentito il terremoto?
Per un attimo provo terrore, rimembranze dell’ancor viva catastrofe che aveva colpito il centro Italia pochi mesi fa. In seguito, quando ho domandato loro se fosse stato grave come l’altra volta, mi rispondono di no. –Lo abbiamo sentito ma nulla di che. Qui non c’è pericolo- dice il mio vecchio, e la cena può procedere senza intoppi. Il dopo si consuma in un sadico e lento trascinamento di gambe verso letto dove, ancora pieno, mi metto prima di vestirmi per uscire un po’. Telefono in mano e mi rilasso ascoltando della musica o guardando qualche sketch comico. All’improvviso uno strano borbottio e rumore pesante di passi sento provenire dal corridoio, un secondo più tardi e si sono spostati sopra la mia testa. Per un momento sono talmente sicuro che fosse mia madre che apro la porta e affacciato verso il corridoio le urlo –Oh Maa, cammina piano, porca miseria!
-Cretinooo- urla lei –Non sono io è il terremoto-. In quel momento tutta la mia attenzione si sofferma su quel brusio che si fa sempre più pesante e i miei occhi finiscono sulla libreria difronte al mio letto che inizia a tremare assieme ai libri e a tutto il resto. In men che non si dica sono già in piedi e mi precipito in sala, dove mia madre è con le mani fra i capelli sotto una trave portante e continua a gridare ordinandomi di mettermi al riparo. Guardo mio padre. Rimasto sulla sedia come se niente fosse, dice solamente –Questa è un pochino più lunga della precedente- e riprende a scrivere al computer portatile. –Venite qua sotto e svelti. Tu vestiti, e tu smettila di scrivere a quel cavolo di computer-.
-Non fare la scema- dice mio padre –Capirai che è un po’ di tremore. Siamo lontani dall’epicentro- ma mia madre è senza controllo. Nei minuti successivi, quando il movimento sussultorio è terminato, io mi siedo sul divano per cercare qualche notizia dell’accaduto e lei è già in camera che tira fuori più roba che può mettendola tutta in una piccola borsa. Io e mio padre rimaniamo calmi sebbene prima non lo fossi stato, ma la sua passività mi dice di rimanere calmo. –Vai a vestirti- continua a urlare
-Ma fuori piove. Dove vuoi andare con questo tempo?
-Lasciala stare- dice poi mio padre –Lo sai com’è fatta
Dopo qualche minuto eccola tornare con dei vestiti diversi e ogni tipo di gioia al collo e sulle dita. Spazzolino e dentifricio in una mano e ombrello nell’altra. –Non fate gli stupidi. Marco andiamo!- dice a mio padre il quale alza la testa fissandola in modo ambiguo, come si guarda un pazzo. Io mi godo la scena nel tripudio dell’ansia e della gravità della cosa che si conclude con l’ultimo tentativo di mia madre di convincerci a vestirci e uscire, ma mio padre, prima di rimettersi al computer, alza di nuovo la testa e fa –Un vero capitano affonda con la propria nave.
-Ma vaffanculo- risponde lei e si sbriga a scendere le scale.
Rimaniamo mezz’ora solo io e lui cercando qualche informazione in più riguardante la situazione, nel più assoluto silenzio, mentre le immagini dei vari crolli nei paesini colpiti ci passano davanti come una tremenda sfilata. Lo guardo. Lui guarda me e poi fa –Senti un po’ la mamma e dille dov’è che quasi quasi la raggiungiamo.
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