Se c’è una elemento culturale che distingue enormemente gli italiani dagli americani, tra tutti quelli possibili in questo periodo si opterebbe per il loro modo di condurre le elezioni. Anche nella nazione a stelle e a strisce ogni tanto devono rinnovare gli organi politici. A meno che non abbiate appena messo piedi sul pianeta Terra è impossibile che non sappiate cosa succederà l’8 novembre, dato che quotidianamente non si parla d’altro che delle elezioni presidenziali statunitensi.
Ci si potrebbe chiedere cosa possa importare ad un italiano chi dall’anno prossimo dorma alla Casa Bianca. È un quesito più che legittimo, ma che dimostra una certa ingenuità. In un mondo così interconnesso sarebbe necessario conoscere anche i processi politici dei paesi africani per comprendere meglio cosa ci accede intorno. Per non esagerare ci limiteremo solo ai vecchi e cari Stati Uniti.
Il tutto è iniziato più di un anno fa quando i soliti partiti in gioco nelle elezioni americane hanno iniziato il processo di selezione del proprio candidato. Così abbiamo assistito agli scontri fratricidi: democratici vs democratici; repubblicani vs repubblicani; e altri scontri minori, perché nonostante tutto anche gli amici d’oltreoceano hanno vari partiti. Giusto per sapere dove va a finire qualche milioncino di voti sappiate che oltre ai due grandi partiti gli americani possono votare per il Libertarian Party e il Green Party, che potranno essere scelti in almeno 30 stati, e innumerevoli partiti minori tra i quali il più degno di nota è il mai domo Prohibition Party.
Alla partenza tra i democratici oltre all’attuale candidato alla presidenza (ALLERTA SPOILER) Hillary Clinton, c’erano il senatore del Vermont Bernie Sanders e l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley. Quest’ultimo già ritiratosi dopo il primo turno di primarie, in Iowa: forse dopo aver realizzato che con un risultato prossimo allo 0,5% la strada verso la candidatura sarebbe stata leggermente impraticabile. Comunque a questo trio si devono aggiungere altre personalità ritiratesi già nel 2015, quando ancora delle elezioni americane non se ne sentiva nemmeno l’odore. Almeno in Europa.
Per molti per Sanders non c’era molto da fare contro la Clinton, invece è riuscito a darle molto filo da torcere riuscendo ad ottenere molte concessioni quando ha dato il suo endorsement alla vittoriosa ex first lady. La Clinton pur vincendo contro il mostro socialista ha fatto proprie molte delle proposte di Sanders in merito al lavoro, alla sanità, all’immigrazione, al sistema penale e persino alla regolamentazione della marijuana. Per questo molti che hanno sostenuto Sanders contro Hillary, hanno accettato di buon grado -tolta qualche normale contestazione- che il Partito Democratico presentasse per la prima volta nella storia una candidata alla Presidenza.
Dall’altra parte della barricata i repubblicani hanno avuto delle primarie leggermente più affollate. Infatti ai nastri di partenza del Great Old Party vi erano in ordine alfabetico: Jeb Bush; Ben Carson; Chris Christie; Ted Cruz; Carly Fiorina; Jim Gilmore; Mike Huckabee; John Kasich; Rand Paul; Marco Rubio; Rick Sanctorum; Donald Trump.
Le primarie repubblicane hanno regalato vari colpi di scena. I papabili per la presidenza sono stati travolti dagli outsider che hanno fatto saltare il banco. Dall’outsider si dovrebbe dire. Nonostante l’establishment del partito fosse contrario alla sua candidatura alla Convention di Cleveland Donald John Trump è stato proclamato campione del GOP dando il via alla sua corsa verso la Casa Bianca.
Le primarie repubblicane sono state più divertenti di quelle democratiche. Sia per i temi e le tesi supportate da alcuni candidati, ma anche per i protagonisti. L’improbabile
candidatura di Trump ha acceso i riflettori del mondo sui suoi comportamenti e sulla vita del candidato. Si può dire che non è proprio un uomo istituzionale. I suoi sostenitori sono sicuramente d’accordo su questo. Tra le sue grandi proposte c’è la distensione dei rapporti, sempre più tesi negli ultimi mesi, con il suo amico Putin, considerato da alcuni più come sponsor del tycoon newyorkese che come amico, e la costruzione di un muro impenetrabile lungo il confine sud degli Stati Uniti. Nonostante tutto Trump ha eliminato dalla competizione il favorito Jeb Bush, i rampanti Rubio e Cruz, di chiara origine latina, e infine dopo il ritiro di John Kasich è iniziata la sua campagna verso la Casa Bianca e contro Hillary Clinton.
Da qui cari amici, è iniziato il meglio, o il peggio a seconda di come la si guardi, di questa corsa presidenziale.
Clinton e Trump si sono sfidati in ogni modo, non risparmiandosi nemmeno colpi bassi, arrivando spesso all’insulto. Tra i dossier più infuocati l’immigrazione, la sempre cara sicurezza e le mail della Clinton. Proprio l’ex first lady è arrivata alla corsa finale con un grosso scheletro nell’armadio. Oltre alla sua esperienza politica (un enorme malus in tempi come questi) Clinton porta sulle spalle un grave peso: un’indagine su di lei da parte del FBI. I federali nel luglio 2016 dopo le indagini hanno giudicato il comportamento della Clinton «estremamente negligente» ma «non passibile di azione penale». Ma perché? Che ha fatto la signora Rodham per meritarsi questi giudizi così severi? Ai tempi del suo incarico come Segretario di Stato, tra il 2009 e il 2013, utilizzò un server privato per le sue comunicazioni elettroniche istituzionali, conservando alcuni messaggi classificati come top secret e mettendo così a rischio la sicurezza di queste informazioni. Non è proprio ciò che può aiutarti a vincere le elezioni un passato del genere. La strada quindi si è fatta più in salita per la democratica, che in più deve affrontare un candidato che, partito da sfavorito persino nelle primarie per poi uscirne da campione, riesce sempre a stupire tutti gli analisti che lo danno per spacciato.
Le elezioni di quest’anno offrono agli elettori statunitensi i due candidati meno apprezzati di sempre, lasciando una folta schiera di indecisi la cui opinione cambia ad ogni tweet o ad ogni nuova rivelazione sui candidati. Si pensava che Trump con i suoi modi bruschi e non proprio diplomatici non avrebbe retto eppure continua ad impensierire la Clinton, nonostante le proiezioni più ottimistiche non lo danno comunque in vantaggio.
Tabella con le proiezioni dei grandi elettori certi o probabili
Tra tutto ciò che è venuto alla luce sui due candidati ciò che sicuramente ha avuto un impatto maggiore, spostando molti voti tra gli indecisi, sono le parole pronunciate da Trump in un video del 2005. In quei pochi minuti di filmato l’allora conduttore del reality The Apprentice parlava con un amico del suo potere nei confronti del sesso femminile. La reazione delle donne americane non è stata delle più entusiaste.
Ricordiamo una massima estrapolata da questo video. Sicuramente è un consiglio utile, se si vuole realizzare qualcosa nella vita.
“Grab them by the pussy, you can do anything.”
La traduzione ve la lascio fare giusto per salvaguardare i bambini. Qualcuno a loro ci dovrà pur pensare.
Trump ha insultato i messicani, i mussulmani, i giornalisti -incitando anche a lanciargli qualche bel pugno- e persino i disabili, ma fino alla fuoriuscita di quel video del 2005 tutto ciò non lo aveva minato. Quel 7 ottobre ha segnato un duro colpo per il candidato repubblicano, ripreso persino dalla moglie.
Nei tre dibattiti televisivi i candidati sono entrati nel merito dei loro programmi durante un confronto, ma non hanno risparmiato l’avversario di colpi basso. La debole e corrotta Hillary contro il predatore sessuale Donald. Il prossimo inquilino della Casa Bianca sarà uno dei due e non è detto che il suo insediamento sarà facile. Infatti molti paventano possibili brogli, soprattutto i Trumpers, mentre i democratici sospettano la Russia di essere uno dei forti sponsor del rivale, con Putin che si è guadagnato pure una comparsata nei Simpson. Russia, che ovviamente se ne tira fuori, dichiarando che qualsiasi sia il futuro presidente si continuerà a cercare un dialogo. Ma la tensione tra i due schieramenti è continuata a salire soprattutto dopo le dichiarazioni di Trump durante il terzo e ultimo dibattito televisivo dove non ha confermato che accetterà il risultato elettorale in caso di sconfitta. Fortunatamente Mike Pence, il suo candidato vicepresidente, ha smorzato i toni dello scontro nei giorni seguenti affermando che il ticket repubblicano accetterà il risultato delle elezioni dimostrandosi sicuro sul fatto che Trump possa vincere. La verità ovviamente sta nel mezzo: è probabile infatti che in caso di sconfitta con un leggero margine Trump chieda un riconteggio delle schede, cosa non nuova nelle elezioni americane.
L’unico momento in cui Trump e la Clinton hanno abbassato i toni è stato quando la sede del GOP della Contea di Orange, in Nord Carolina, è stata devastata. Il supporto per la ricostruzione è arrivato dagli attivisti democratici e in quell’occasione le campagne elettorali dei due candidati si sono concentrate sulla ferrea condanna di un così vile gesto.
A poco più di una settimana dal voto il mondo intero volge lo sguardo agli Stati Uniti, attendendo con ansia l’8 novembre per conoscere chi sarà il prossimo a sedersi nello Studio Ovale. Nel frattempo non si abbassi l’attenzione su questi ultimi giorni di campagna elettorale che possono ancora regalare molti colpi di scena.
Stay tuned!
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