Avete mai pensato a un ricordo di un viaggio lontano? Un episodio accaduto difronte ai vostri occhi, in un’altra città, in un paese lontano dal vostro? Io sì. Troppe volte ho spulciato tra i residui polverosi della mia mente. Si hanno solo vent’anni ma si è subito disposti a parlare del passato come di roba vecchia, antica e troppo remota per riviverla fisicamente, così si ricorre al ricordo. Un ricordo rifiorito tramite agenti esterni, che inducono il tuo cervello a rimembrare vicende e volti mai dimenticati. In questo periodo di fuga dalla propria terra, dalla propria casa e famiglia. Centinaia di giovani che fanno in pochi minuti una valigia, un piccolo bagaglio a mano, comprano a buon prezzo un biglietto di sola andata e se ne vanno. La grande emigrazione verso il nuovo mondo ora si è fatta più vicina; non c’è bisogno di traversare l’intero oceano, la fortuna e una vita possono risiedere a sole due ore di volo. E così tra documenti e scartoffie, tra videochiamate tramite computer e cellulare con una madre o un padre, si mantengono i contatti affettuosi via telematica. Cercando con sostanza, in una sola settimana si è già trovato lavoro. Dopo alcuni mesi, un anno, si è pronti a tornare. Un’esperienza di lavoro finita con la possibile speranza di un ritorno in quella terra che ti ha ospitato, ma la nostalgia è grande, l’amore indiscusso e indissolubilmente presente per il “Tuo Posto” non ti fa respirare. Decidi di rimettere piede in patria. Arrivi, saluti, baci e abbracci. Parli, racconti com’è andata, ti soffermi però solo alcune settimane. L’aria è immediatamente irrespirabile. Avverti il bisogno di fuggire. Guardi il tuo portafoglio semivuoto e decidi di levar ancora le tende. Altro bagaglio, nuovi vestiti, altro giro altra corsa, nuova meta. Siti e siti per scegliere quella giusta. Un lavoro che occupa intere giornate fino a quando anche il portatile si volta e ti dice “Allora?”.
Meta precedente, due ore di volo. Meta successiva, ti spingi ancora oltre. Superi le due ore e arrivi nel posto più lontano. Ti accomodi e ti ambienti. Ricominci d’accapo la camaleontica fase di diventare in fretta un tutt’uno con la nuova nazione che ben disposta, almeno burocraticamente, apre le sue braccia al nuovo arrivato, figlio disperso come tanti altri. Nuova casa, altro lavoro e nuove facce da ricordare, nuovi nomi da memorizzare, poi l’aiuto spensierato tra emigranti; lo sguardo sempre affacciato verso casa. Se hai forza, ti stabilisci e lì rimani, sotto il passare degli anni. La patria è troppo importante? Torni, ti fermi e poi riparti. Non puoi proprio fare a meno di lei? Non parti più e ti restano solo i ricordi.
Ho parlato di viaggi dovuti più che altro a una situazione lavorativa; cosa quotidiana oggi giorno, ma può essere un viaggio di soli pochi mesi, due settimane. Un viaggio persino nella propria nazione, in una regione lontana. Tutto rimane e tutto resta cicatrizzato tra bello e brutto sulla pelle. La tua carne, come quella di molti giovani d’oggi, diventa un romanzo sul quale leggere di vicende passate, di volti vissuti, di strade percorse, di cibi digeriti e di bei paesaggi. Ma solo un atto, uno tra tutti, resta il più degno di essere più volte raccontato, come una parabola di un testo sacro, come di un duello in un classico d’avventura.
L’Irlanda, unica terra che ora mi torna alla mente. Vero ricordo che sento più impresso. La musica celtica, “Irish Jig”, da uno stereo, stuzzica le mie orecchie e risento di quei canti, rivedo gli scorci di mare gelato e le ampie radure che mescolandosi assieme sembrano campagna umbra, quella più cruda e grezza, pianura della bassa padana quando ti trovi nel bel mezzo del nulla. Radura a destra, radura a sinistra e al centro una casetta; ultima testimonianza di un mondo gaelico infranto. C’è più vita lungo la costa. Se ci penso, la voglia di tornarci è grande, di rivivere immerso alle pittoresche facce e ai loro modi a volte gentili, a volte bruschi e legnosi.
Tornerei per viverla tutta, dal fondo fino alla sua cima, ma soprattutto per prendere parte a un evento che realmente segnò quella mia permanenza in modo irreversibile.
Eravamo in quattro ed io unico italiano tra ragazzi francesi. Tipica giornata irlandese, quando il sole è offuscato da nuvole talmente dense che difficilmente scorgi la sua sagoma; ne senti soltanto un leggero tepore che accarezza i capelli e il tuo tragitto. Zona del centro, accanto al Temple Bar, uno dei pub più tipici e tradizionali. Pomeriggio, non notte, un tiepido pomeriggio sonnolento. Stiamo conversando, chiacchierando, anche un po’ annoiati, del più e del meno. Siamo quasi vicini alla strada quando alla nostra sinistra le porte di un pub, costantemente aperto, si spalancano, aperte dall’esile schiena di un alticcio uomo sula cinquantina, preso e spinto dal colletto, da rivale barbuto e rosso, di birra e di pelo, che esce dall’ombra. Il barbone ha la meglio sull’altro più magrolino. Guardiamo e mi si raggela il sangue; ho paura, ma voglio vedere. Il grosso barbuto lo sottomette mettendogli la testa sotto l’ascella e continua a gridare “Bastard, Bastard”. L’altro, ormai del colore di una Guinnes ghiacciata, riesce a liberarsi prendendolo per le palle e brandendo un ulteriore cazzotto sul costato, facendo finire il rosso barbuto a terra. Ora è il piccoletto ad avere la meglio, e si siede sopra la sua cassa toracica e, allungando le mani fino sotto il collo, lo stringe e lo strangola. A un certo momento l’attenzione nostra si sposta sulle porte dello stesso pub che si riaprono; esce la moglie di uno dei due che chissà per quale strano motivo, poi capito in un secondo momento, posa la pinta di birra scura sopra il tavolino esterno del locale. La poggia come si poggia un neonato su di un seggiolino, e prende un altro boccale già scolato da un altro individuo e lì lasciato a macerare. La donna, bionda e ben rifinita, afferra il bicchiere e si precipita sul piccoletto. Prima di scagliare il colpo urla “Soundrel” “Mascalzone”, un momento più tardi il bicchiere è in mille pezzi e dalla testa del piccoletto esce sangue a non finire. Il rosso e grosso barbuto, salvato dalle gentili maniere della damigella, fa cambio di posto, e ora è lui sopra il povero sanguinante non del tutto ripreso dalla botta. Io e gli altri, ci defiliamo senza dare troppo nell’occhio, nella speranza di vedere arrivare la polizia a risolvere la situazione, la quale, sotto forma di due impavidi gendarmi vestiti di scuro con la scritta “Garda Síochána”, che, accortisi della situazione di pericolo accorre in maniera flemmatica, tranquillizzando tutti dicendo, “Yea, yea, i’m coming, i’m coming”.
Amo quella città e suoi cittadini.
- La donna bionda, non aveva scagliato la sua birra per un semplice motivo; era ancora a metà e l’aveva pagata. Gli irlandesi sono un po’ tirati.
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