Giovedi 24 novembre 2016. Non è proprio una giornata come le altre, qui, nella città di Perugia. Per molti onesti cittadini, e anche quelli più oscuri, chiamiamoli così, la giornata inizia e prosegue dalla mattina fino al tardo pomeriggio come se niente fosse. In verità il giovedì è sempre un giorno più strano degli altri. Non ci si fa caso, è solo un proverbio e non bisognerebbe abusarne troppo di quelli, ma è vero quando si dice “Sei sempre in mezzo come il giovedì”, usato per descrivere quei personaggi, quei tizi un po’ fastidiosi, ingombranti che giustappunto rischiano la propria personalità venendo associati a questo giorno settimanale. Perché è davvero così. Il lunedì è detestabile, poiché si torna dalla pacchia domenicale. Il martedì si è già più fortificati così come il mercoledì. Non si spera nient’altro che sia subito venerdì ma quello stramaledetto giorno si pone in mezzo senza tanti giochi di parole, s’impone macchinosamente nella routine guastando il tuo ormai allietato movimento. C’è gente, molta di più di quanto si pensi, io per primo, che tende ad accostare un colore ad ogni giorno della settimana; così, se lunedì può essere un blu più scuro del martedì, venerdì si trasforma in un cupo verde selva e il sabato in un verdino pisello simbolo di speranza, mentre per la domenica si spazia da un rosso acceso ad un rosa o anche un giallo solare, docile e tranquillo. Ma il giovedì? Il giovedì che diavolo di colore è? Qual’è la tintura mistica, mentale che indica con precisone il suo carattere? Non so voi, cari e affezionati lettori, ma per quanto mi riguarda, a detta di altri, il bianco è il colore che più si rifà al giovedì, un colore senza infamia e senza lode, capace di non trasmettere nulla, utile per essere sporcato da altre tonalità, inutilmente innocuo che non terrorizza né appassiona. Per questo andrebbe abolito, sia l’uno che l’altro, e il mondo intero si fermerebbe, affascinato, ad assistere l’esilio del bianco e del giovedì, con la speranza che ciò possa risolvere la fame, le guerre, ristabilire una pace cosmica o almeno evitare di andare da uno psicologo; secondo alcuni, sono questi i due veri motivi per i quali ci si va. Freud avrebbe risparmiato tempo se invece di Edipo o di un riso, si fosse soffermato a pensare “Ma il giovedì a che cosa serve? E il bianco?”.
Mi sto dilungando troppo e torno immediatamente al punto di partenza. Tra un proverbio e l’altro, tra una bestemmia al sorgere del sole e un mesto sciancare di piedi, la maggior parte delle persone della città inizia questo giorno come il più brutto ma, aimè, inevitabile. Io invece per tutto questo tempo ho cercato di non pensarci più di tanto; era effettivamente una giornata particolare, a tal punto da farmi quasi dimenticare che è giovedì, e in ogni giovedì che si rispetti tutto può accadere. Ma avevo iniziato con il piede giusto. Sveglia, doccia e caffè e poi via, verso la città vecchia dove ha sede la mia università. Proprio lì, a pochi passi, c’è il teatro Morlacchi, un istituzione e lustro cittadino, lo stesso luogo dove poche ore più tardi avrei potuto godere di quell’inconfondibile voce rauca che tante volte ho ascoltato e riascoltato. Quella del grande Francesco Guccini. Con lui ho sempre avuto un rapporto speciale, sebbene lui neanche s’immagina chi io sia, ma non è questo il punto. Fu lui che per primo mi fece amare la musica. Gente che lo snobba e preferisce altri, senza fare nomi, al suo posto, non lo ha mai ascoltato fino in fondo, non è mai stato inebriato dalla sua erre moscia mentre si faceva ironicamente beffe del malanno sociale. Un dolore, un violento atto, una dittatura, un errore umano, ma che con le sue canzoni si è sempre risolto con una risata e una battuta di spirito. Ero davvero emozionato; lo avrei rivisto dopo anni dall’ultimo che ad Ancona ebbi l’onore di vedere tra applausi e pugni chiusi. Guccini è vera storia.
Insomma, avevo da superare solo qualche lezione universitaria e poi potevo lasciarmi andare. La prima, di buon’ora, passò molto lentamente. Ore di ozioso relax, pranzo e altrettanto riposo sorseggiando caffè ma in testa sempre quell’appuntamento in teatro. Lezione di letteratura spagnola in cui si percorre in ogni dettaglio, ogni elemento, la storia di spagna e della sua letteratura. Interessante ma un fitta di stanchezza ti sorprende e vorresti essere altrove. Ma anche questa passa ed è sempre interessante. Il professore, prima di poter andarcene, domanda chi fosse andato a vedere Guccini alle sei di sera. Alzando la mano mi sorride e, dopo aver detto che probabilmente ci sarebbe andato anche lui, mi cita un pezzo dell’avvelenata, “Ma s’io avessi previsto tutto questo…..”. Non ho neanche la forza per continuare, come in duetto improvvisato, la battuta successiva; “Dati causa e pretesto!”. Mi allontano. Ho appena il tempo per mangiare un boccone che sono di nuovo in classe, pronto per l’ultima lezione della giornata. Ancora due ore e ce l’avrò fatta, ma appena anche questa finisce, ed io mi precipito verso il teatro, eccitato come uno scolaretto, un’orrenda visione si pone dinnanzi a me. Una fila ignominiosa, troppo lunga e frenetica da vedere, interminabile. La sua fine si ha solo trenta metri più indietro dall’ingresso, o forse anche cinquanta, dinnanzi ad una piccola pizzeria che sicuramente avrà rimpinzato le tasche. Questi italiani, appena qualcosa è gratis si precipitano, anche se non interessati. Questione di principio e riscatto sociale. Poi ripenso a quattro giorni prima, quando andai ad informarmi se l’ingresso era libero o a pagamento. Non è che siamo poi così diversi, ma non è questo il punto. Il punto è che fra canti e sbuffi, arrivai neanche a metà della fila poi ne venni risputato fuori quando si seppe che il teatro era completamente occupato. Il sangue mi ribolliva, avrei voluto gridare la mia rabbia in mezzo a quella marmaglia ma mi contenni quando vidi lo stesso professore che si dileguava, anche lui dispiaciuto nel non essere potuto entrare, e proprio quando era vicinissimo per varcare il portone principale. Ci salutammo con la morte nel cuore ma ignari di quello che sarebbe successo più avanti. Lo persi di vista e saturo di rabbia mi avviai verso la macchina ma lo rincontrai nella nebbiolina e non lontano dalla mia vettura. Aveva un foglio fra le mani. Lo salutai nuovamente e lui mi mostrò il foglio, classico color di rosa, e in uno sguardo che toccava il surreale, mi disse che aveva preso una multa. Non so perché, ma quando vidi che le altre macchine non ce l’avevano, pensai che anche la mia avrebbe potuto salvarsi dalla mano tirannica del pubblico ufficiale. Tirai un sospiro di sollievo e non mi mostrai molto disposto a consolarlo, devo riconoscerlo. Poi, quando l’occhio cadde sul mio parabrezza, dovetti cancellare quell’aria soddisfatta e ammettere alla personalità che avevo di fronte, di aver preso una multa pure io. Ci guardammo e un riso amaro scese sulle nostre facce contrite. La furia del giovedì aveva colpito di nuovo e noi ritornavamo alle nostre case sconfitti ed esausti.
Una sola cosa mi riportò ad un’esistenza felice, o almeno normale; che il giorno dopo sarebbe stato venerdì, e che tutta quella folla per vedere il mitico cantautore era segno di un roseo futuro per la musica. Non era stato dimenticato e la sua musica continua ad emozionare.
E un altro giorno è andato, la sua musica ha finito,
quanto tempo è ormai passato e passerà?
Le orchestre di motori ne accompagnano i sospiri:
l’ oggi dove è andato l’ ieri se ne andrà.
Se guardi nelle tasche della sera
ritrovi le ore che conosci già,
ma il riso dei minuti cambia in pianto ormai
e il tempo andato non ritroverai…
Giornate senza senso, come un mare senza vento,
come perle di collane di tristezza…
Le porte dell’estate dall’ inverno son bagnate:
fugge un cane come la tua giovinezza.
Negli angoli di casa cerchi il mondo,
nei libri e nei poeti cerchi te,
ma il tuo poeta muore e l’ alba non vedrà
e dove corra il tempo chi lo sa?
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