La nostra rassegna di cinema continua presentandovi sempre saggi e articoli su nuove pellicole che escono puntualmente nelle sale cinematografiche. Il nostro occhio curioso cala anche su personalità che, più di tutte hanno segnato e calpestato questo preciso campo artistico. Oggi parliamo di un attore di cinema e di un certo genere di film, se non del tutto dimenticati, ridotti a soli ricordi e memorie. Da alcuni anni a questa parte, la questione dell’emigrazione torna a interessare e far discutere. Un flusso che ha varie facce e si presenta sotto individui di versi e di diversa nazionalità. Ricordiamo i rifugiati siriani e non solo, che avevano oltrepassato i confini dell’Europa, in fuga da regimi scomodi o dal terrorismo. L’ondata di nuovi profughi che, tra il 2014 e il 2015, avevano fatto tremare la stabilità sociale, portando a scontri d’opinione, dal comune cittadino fino ai vertici più alti della nostra società. Ebbene, nonostante questo non sia cessato, quei due anni furono coronati dalle più strabilianti e assurde convinzioni che tuttora non desistono e continuano. C’è chi li voleva aiutare e ne soffriva. Altri li volevano subito fuori dal paese chiedendo di intervenire in maniera ferrea su questa situazione. Altri ancora, dicevano che bisognava aiutarli ad attraversare quella lingua di mare che li separava ma che poi sarebbe stato meglio rispedirli nel loro paese o da un’altra parte. Non è solo questo, va riconosciuto. Ben altre furono le problematiche e più profonde le questioni da non riassumerle in un solo e unico episodio. Fatti di questa portata non interessano solamente la nostra penisola; L’Europa stessa risentiva della pressione incessante, e anche adesso ode quel grido d’aiuto lontano. Generalizzando, sono queste problematiche che ci sono sempre state, che si spingono oltre oceano comprendendo un numero più elevato di stati.

Tornando alla questione su come la nazione e i suoi cittadini vedano questi sfollati, poveri e disgraziati che cercano libertà e un futuro migliore, si dimentica, e da questo preciso punto di vista mi riferisco all’Italia prima di tutto, quella che fu l’ondata migratoria più importante ed enorme, all’inizio del secolo scorso. Si è dimenticato cosa vuole dire essere un immigrato, un “Senza Patria”, un poveraccio in cerca di fortuna. Sbattuto in bastioni e stomaci ferrosi di nave, guardavamo all’orizzonte con la speranza di arrivare e di iniziare una nuova esistenza ma sempre con il dolore di aver lasciato la propria terra. Oggi, non sembra essere cambiato più di tanto. Giovani illusi e delusi, da uno stato che non protegge e non da che vivere, ripercorrono la strada dei propri nonni, delle vecchie generazioni. Come allora, l’italiano lascia la propria terra e se ne va a zonzo nel mondo; Francia, Inghilterra, Germania, Spagna, qualsiasi posto che dia lavoro e permetta di vivere in una società seria. Gli Stati Uniti non sono, diciamo, la meta forte e più consigliata in questo momento, ma molti compaesani credono ancora in quella grandezza.
Il fatto è che in un’epoca in cui la storia può ripetersi, è giusto guardare solo un attimo indietro, alle proprie radici, andando a ricercare non solo in testi letterari, cronache, libri di storia. Il cinema ha compiuto un formidabile lavoro di registrazione e catalogazione di dati, quello italiano, fra glia anni sessanta e settanta, in particolare, ha permesso di rivivere quegli anni e il cittadino italiano costretto a emigrare aveva assunto una vera e propria maschera che si rifaceva alle gesta mimiche e attoriali di uno dei migliori attori teatrali e cinematografici. L’aspetto pregnante di quei film, non è tanto la situazione che si vive, quanto la dura volontà dell’immigrato sfruttato, bonaccione, scaltro, ITALIANO, che non si arrende, ma è sempre sul punto di farlo, si è sempre configurato nelle sembianze di questo grande commediante.

Figlio d’immigrati negli Stati Uniti, Nino Manfredi è stato uno dei pochi attori, se non il migliore, che ha saputo recitare tale parte, permettendo una descrizione al limite del grottesco, comica, ma allo stesso tempo vera e drammatica nei suoi toni reali. Fu proprio questo retaggio che gli permise di studiare e apprendere al meglio il ruolo di un immigrato italiano fuori dal suo contesto territoriale. I suoi film traboccano di continui riferimenti a una particolare etnia che, mescolandosi con pregiudizi e atteggiamenti, ne ricavano una fedele rappresentazione. Atteggiamenti e caratteri che arrivano a confondersi con una particolare tecnica di difesa, apportata dagli italiani nel momento in cui erano in bilico se tornare indietro o entrare a far parte della società ospitante. I due film che stanno per citarvi sono una pietra miliare del nostro lontano cinema di genere; più che semplice commedia qui si fonde un comico e tragico, spostati fuori confine italico e alla mercé d’individui stranieri.Se sul suolo italiano riuscivamo a cavarcela, il mondo esterno si rivela estraneo e mal disposto a farcela passare liscia. Come se non si avesse più la corazza, si diventa, tutto d’un tratto, paurosi e indifesi, sempre allerta su ciò che è meglio fare, a come interloquire e con quale movimento iniziare.
“Pane e cioccolata” e Spaghetti House”. Il primo, diretto da Franco Brusati, uscì nelle sale cinematografiche nel 1973 e fu subito un successo di pubblico e critica. Il ruolo dell’italiano, con marcato accento ciocio-romano, doveva essere affidato prima a Ugo Tognazzi, altro mattatore, che sicuramente ne avrebbe fatto una buona interpretazione ma mai simile a quella di Nino Manfredi. Con una semplicità che sfiora l’assurdo, il personaggio di Giovanni Garofoli cerca disperatamente un lavoro in Svizzera, contrario a ritornare dalla famiglia in Italia a mani vuote. Dopo aver lavorato anni come manovale e aver vissuto l’esperienza delle baracche assieme ad altri compaesani, trova un lavoro in un ristorante di lusso. È ancora in prova ma un solo istante e potrebbe essere ufficialmente assunto, se non fosse per una foto che lo ritrae a far pipi su un muretto. Perde il lavoro ed è costretto a nascondersi come clandestino da una donna greca che abitava davanti al suo piccolo appartamento, e chiede poi aiuto ad un ricco industriale italiano, conosciuto quando lavorava al ristorante. Sembra quasi sventato il pericolo di dover lasciare la Svizzera, ma ecco che l’industriale finisce in bancarotta e si suicida. Dopo aver conosciuto un’ambigua famiglia italiana che per lavoro spennano galline, arrivando ad assomigliare loro stessi a quei pennuti dato il costante avvicinamento, pensa che la cosa migliore da fare sia fingere, in tutto e per tutto, di essere uno svizzero. Si tinge baffi e capelli di biondo ma il suo continuo atteggiarsi trova una barriera impossibile da infrangere. Una partita di pallone fra Germania e Italia fa esplodere il suo orgoglio patriottico in un tifo sfegatato. Dopo un incidente con dei tifosi svizzeri in un Pub, capisce che la cosa migliore da fare è tornare dalla famiglia. Sale sul treno e si addormenta. Si risveglierà poco dopo sulle note di “simme ’e Napule paisà” intonata da un compatriota sdentato e da altri italiani seduti nella stessa carrozza. Garofoli scende dal treno e torna indietro non dichiarandosi sconfitto.

Rimasta epica la scena del pollaio dove Garofoli assiste ad un vero e proprio mutamento. Quelli che ha di fronte non sono suoi compaesani, nemmeno semplici uomini, ma esseri rovinati e trasformati dalla miseria e da uno stile di vita al di fuori del reale; unico modo per sopravvivere.
“Come ti chiami?
Garofoli Giovanni. Innocente.
E italiano…
Beh… Nessuno è perfetto, signor commissario.”
Il secondo, seppur di minor importanza, è comunque un inno d’ascolto lanciato da cinque camerieri di un famoso ristorante di un quartiere italiano di Londra. Domenico Ceccacci (Manfredi) i suoi quattro colleghi, decidono di mettersi in proprio e aprire un loro ristorante. Nel momento in cui festeggiano e s’immaginano già il successo che potrà avere il locale, vengono sequestrati da tre malviventi di colore. Uno fra questi è un tale Martin che preso dalla rabbia e da una forte depressione per non aver trovato un lavoro, decide di rapinare il ristorante dove lavorano i cinque italiani. Dopo qualche disguido sono costretti e rifugiarsi tutti nel ripostiglio dove vengono custodite bottiglie vuote e polpa di pomodoro in scatola. La polizia circonda il locale ma non potranno entrare e i poveri protagonisti dovranno rimanere li dentro per due giorni fino al momento in cui non saranno liberati da Martin stesso che capisce che tale atto non lo porterà da nessuna parte. Poco prima che la polizia entri nella stanza Martin si spara ma rimane ferito solo di striscio. Il finale del film vede Domenico far visita a Martin in prigione. Capisce che non è cattivo e che dietro quella maschera che si era creato c’era solo una brava persona, intelligente e poetica, che era stata calpestata fin troppo da una società che non ripagava, un po’ come era stato per Domenico. Rimangono amici e speranzosi di rivedersi in futuro.

“…a me non mi fanno paura loro che ce vonn’ammazzà, mi fate paura voi che ci dovete difendere!”Domenico Ceccacci (Nino Manfredi) nel momento in cui non resiste più, capendo che gli unici ai quali sta a cuore la loro pelle, sono gli stessi che li tengono rinchiusi piuttosto che i poliziotti che continuano, invece, ad infischiarsene della vita dei cinque ostaggi.
A Nino Manfredi è stato dedicato anche un film, curato da suo figlio: In arte Nino – Un figlio racconta il padre