Alessandro Tunin, detto Toni, era nato in una famiglia di artisti culinari. Sin dai tempi del suo avo più remoto, in casa sua si producevano panettoni e Toni apprendeva tutto quello che c’era da sapere sulla lavorazione di questo antico dolce tradizionale lombardo. El Panatun, diceva il vecchio Remigio Tunin, nonno paterno di Toni, nacque per merito del “Toni”, l’aiutante del cuoco alla corte di Ludovico il Moro, che dopo aver lasciato il pane troppo tempo sul fuoco, per non gettarlo, lo ricoprì di glassa, mandorle, uvetta e canditi. Dopodiché fu servito, tra le ansie del cuoco, agli ospiti del Moro, che iniziarono a mangiare la pietanza con vorace ingordigia. Il verdetto finale? Un successo, un trionfo che da quel momento fu tramandato di padre in figlio. La famiglia Tunin non ne ebbe l’esclusiva per molto tempo. Gli anni passarono, la voce si espanse a macchia d’olio in tutta Milano e fuori dai suoi confini, portando la ricetta del “Panatun” in tutta Italia. L’avvenire fu invaso da gente di ogni tipo e categoria che riuscivano a cucinare un buon panettone senza la premura di chiedere prima il permesso alla famiglia Tunin, che nel frattempo si disperava nel vedere la propria invenzione lasciata allo sbaraglio e alla mercé di chiunque. Per anni si cercò un rimedio. Il nonno del nonno di Remigio Tunin, più volte, e senza successo, aveva tentato di cambiare la ricetta con un tocco di modernità, con qualcosa di innovativo. Quando ci riusciva c’era sempre qualcuno che gli rubava l’idea facendola diventare subito banale. Con il tempo ogni componente della casata cercava un rimedio per ridare importanza ai veri maestri e scopritori di questa ricetta. Nessuno ci riuscì mai, nemmeno il nonno di Alessandro (Toni), il quale, dopo tentativi falliti, non poté far altro che chiudere la fabbrica che nel frattempo si era dimezzata, nel piccolo sobborgo della capitale del nord, e così, rinchiudersi nel suo guscio domestico e prettamente familiare e decidere di continuare la vera tradizione se non tra le mura di casa.
Aveva avuto il tempo, però, di spiegare tutto quello che c’era da fare e da sapere sulla lavorazione del Panatun e sulla sua storia al piccolo Alessandro (Toni). Lui aveva ascoltato così tante volte tale manfrina e sviolinata sull’importanza gastronomica e dolciaria della famiglia che non era mai riuscito a farne uno come si deve. Ogni panettone fatto da Toni che usciva dal forno era per Remigio una coltellata tra le vecchie costole, ma tale fatto non gli aveva fatto passare la voglia di continuare le sue lezione pratiche. “Alessandro”, diceva il vecchio “Per fare un buon Panatun, devi usare la testa. Solo con cervello e mente si fa un dolce di questa maniera”. “Usa la testa”. Talmente tante volte, Alessandro, aveva ascoltato queste parole che un giorno non seppe resistere alla tentazione di stramaledire il nonno e quei maledetti panettoni che per anni lo avevano torturato, a tal punto da fargli dimenticare di essere un ragazzo in carne ossa e non solo di mandorle e uvetta. Aveva scelto di non seguire più la tradizione. L’odore del panettone lo nauseava e persino l’alito pesante dei familiari e la puzza glassata dei loro vestiti. Decise di non far parte più della famiglia e di cambiare casa, ma aveva naturalmente bisogno di soldi per potersi mantenere. Girò tutta Milano in cerca di lavoro e dopo alcuni mesi l’unico posto, sotto il periodo natalizio, che riuscì a trovare era operaio addetto alla cottura di Panettoni in una piccola azienda lungo il naviglio. Accettò quel posto con vera amarezza pensando solo ai soldi a fine mese. Remigio Tunin, sapendo della notizia recapitatagli dalla madre di Alessandro, sospirò e piano piano, a voce bassissima sussurrò il vecchio monito dell’antico casato, “Usa la testa”.
Iniziò così il suo primo turno nella fabbrica. A solo due settimane a Natale gli fu offerta la prima turnazione notturna; in pratica doveva solo infornare i panettoni, attendere il tempo esatto di cottura, tirarli fuori e lasciarli riposare. E così fece. Ne mise una ventina su di un lungo vassoio, un’altra ventina su un altro e infornò. Attese e poi li tirò fuori. Stesso su e giù per tre o quattro volte, fino d arrivare alle 5 di mattina che era stanco morto e si sedette sul tavolo da lavoro infarinato e si accese una sigaretta. Non molto distante da dove si trovava, una delle dipendenti più anziane, Rosa, aveva lasciato il grosso tegame con la pasta per Panettoni. Doveva essere rimesso subito in fresco perché non si rovinasse ma Toni, preso in mano l’aggeggio, mentre era lì per metterlo al sicuro, pensò alle parole del vecchio nonno: “Usa la testa Toni”. Forse che si trattasse del suo momento di riscatto? Si sarebbe presentato al nonno con la più bella sorpresa che potesse fargli prima che fosse stato troppo tardi. Sicuro di essere solo, rimise il tegame sul tavolo, prese un pezzo di pasta e inizio ad impastare. Ne prese un altro po’ di quella pasta molliccia fino a farlo diventare troppo mastodontico per un solo piccolo stampo. Ne prese uno di dimensioni enormi e dentro ci getto la pasta, canditi e uvetta. Le mandorle sarebbero arrivate in un secondo momento, solo dopo che la pesante macchina d’acciaio avesse stretto il panettone sotto la morsa dandogli quella sua forma particolare. Tutto era pronto ma qualcosa del macchinario continuava a non funzionare, il pulsante non dava segni di vita. Mentre Toni si chinò sopra la pasta per controllare se ci fosse stato qualcosa che non andava, ecco che la macchina, come per magia, prese a funzionare e tutto lo stampo ricadde sulla testa di Toni e tutta la pasta, premendo insieme il tutto. All’arrivo della polizia e degli uomini dell’ambulanza, ritrovarono il corpo del ventiquattrenne Alessandro Tunin, senza più vita ne testa. Vicino al forno, un immenso panettone farcito, completamente privo di mandorle sulla superficie ma intriso di rossa sostanza che subito si pensò essere liquore. Non si preoccuparono di indagare più di tanto, c’erano tutte le prove per capire che non si trattava altro che di un incidente. Il Panatun, fu lasciato li davanti al forno a dorare, pensando che non fosse un indizio su dove sia potuta andare a finire la testa del povero ragazzo. La madre di Toni e il nonno arrivarono alla fabbrica dopo qualche minuto, invasi e distrutti dal dolore; la madre sorreggeva il vecchio e lei si faceva coraggio mentre , lacrimando, si avvicinava al corpo. Remigio non volle nemmeno alzare il lenzuolo bianco che subito fu colto da un particolare che lo attirò verso il forno. La madre, accompagnandolo davanti a quell’obelisco zuccherino, pianse ancora più forte e si strinse al nonno che dal Panettone ne staccò con la sola mano un pezzo; odorò la pasta e la sua superficie e poi l’addentò con passione, restando ad occhi chiusi ad assaporare quell’opera. “Non è mai riuscito a fare un panettone come si deve” disse la mamma piangendo “e ora non può nemmeno assaggiarlo per sentire se sia buono o no”. Il vecchio Remigio, fece un profondo respiro gonfiando il petto come un pennuto, finì di mangiare quell’ultimo pezzettino rimasto tra le mani e disse con la faccia di chi rasenta l’orgoglio superiore a tutto: “No cara” fece alla madre, “Questa volta Alessandro c’è riuscito. E’ buono. Ha usato la testa”. E se ne andarono portando con loro il Panatun che avrebbe riportato lustro alla famiglia.
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