Nell’aereo che dalla città di Sochi sarebbe dovuto atterrare in Siria domenica 25 dicembre 2016 non vi erano semplici passeggeri. Non spetta a me giudicare chi sia più importante di altri, ma per quanto riguarda i protagonisti di questa sventura, loro certo che non erano persone comuni. Il Tupolev 54, un aereo militare russo in servizio dal 1983, è scomparso dai radar subito dopo essere decollato. Il verdetto: l’aereo è sprofondato nel Mar Nero portando con se tutti gli uomini che erano a bordo. Attentato o semplice incidente? Stando ad alcune fonti la tragedia non è riconducibile ad un’azione terroristica che già, in precedenza, aveva imperversato sul suolo russo e al di fuori di esso. Un errore umano. 84 i passeggeri, più otto membri dell’equipaggio, che il giorno di Natale invece di un semplice viaggio hanno preso parte ad una vera e propria tragedia che segna ancora una volta la popolazione russa. Questa volta in maniera molto più profonda. Nel volo, infatti, viaggiava il Coro dell’Armata Rossa, un vanto per la madre patria, un’istituzione canora importantissima che da quasi 90 anni teneva alto quell’orgoglio, esibendosi indistintamente difronte a “popolo” e “palati fini”.

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Il coro, o Complesso Aleksandrov, si era formato nel 1928 grazie a dei soldati dell’esercito che avevano deciso di dare, ai militari ma anche ad un pubblico sempre più vasto, un grande regalo, quello delle loro doti artistiche, nella ricerca di attenuare con la dote naturale del canto quel periodo politicamente e socialmente aggravato e, nello stesso tempo, dando l’opportunità all’arte stessa di essere chiamata fortemente in causa. Il primo concerto, che si svolse a Mosca il 12 ottobre 1928, fu diretto da Aleksander Vasilyevič Aleksandrov, professore del conservatorio della città nonché  creatore e compositore dell’inno nazionale. Insomma, un complesso che portava con se la storia della Russia sin dalle sue radici come nascente potenza e che, tramite le sue voci maschili, continuava a restituire e narrare.

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Un lutto nazionale che sento di dover fare anche un po’ mio, essendo stato un affascinato e curioso ascoltatore delle sue esibizioni. Non era di per se un semplice gruppo corista, come se ne sono visti tanti: era davvero uno spettacolo e un’immensa gioia sentirli cantare, poter capire fino a che punto poteva spingersi la potenza di quelle voci. Anche l’Italia, poi, aveva fatto la sua scena, quando nei grandi spettacoli si smetteva di intonare Katjuša (Katyusha) o Kalinka Malinka o Ochie Chornie, e venivano suonate canzoni di altri paesi, come appunto “Bella Ciao” o “l’italiano vero” di Toto Cutugno. Al di fuori del solito strato e orientamento politico, in misura minore di quando fu instituito, il coro dell’armata rossa era veramente simbolo di una grande tradizione musicale, dedita all’arte per l’arte.

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1 commento

  1. davvero un bell’articolo per una tragica fine di un gruppo cosi importante. Una grave perdita per la russia ma anche per tutti noi amanti della musica.

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