Cronache di un vecchio perugino

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La curiosità di un uomo qualunque e delle sue tante avventure susseguitesi nel corso di un’intera vita è sempre un attività informativa che a volte riesce a farti sentire veramente compiaciuto e soddisfatto. Nel mentre che l’intera società è assorta in problemi più grandi che non tutti hanno il piacere di assistere e provare, almeno non in maniera fisicamente attiva, qualcun altro preferisce farne a meno di tutte queste notizie che come venti febbrili si abbattono sopra le case e nella quotidianità del semplice cittadino. A volte c’è solo bisogno di una buona storia e qualcuno disposto a raccontarla, per allietare e iniziare così una buona giornata. Questo è il motivo per il quale la redazione di Der Zweifel è felice di proporre al lettore una rassegna di vicende avvenute a uomini comuni, non inclini né alla troppa politica o alla troppa violenza. Uomini che con il lavoro e continue esperienze hanno arricchito la loro vita e quella di altri. Siamo veramente lieti di far rivivere anche a voi un po’ di quelle vicende che noi già abbiamo avuto l’onore di ascoltare. Storie così pure e oneste che sarebbe un vero peccato se andassero perse invece d’essere narrate e gustate anche da più persone. E se all’inizio potrebbero non sembrarvi chissà che, riflettete, e pensate che forse erano altri tempi, che per un singolo individuo sono tanto e l’unica cosa che conta, magari la più importante e incredibile che possa essergli capitata. Non andate a cercare subito una morale, quella potrò darvela io. Non gettatevi con immediatezza a trovare un senso. Prendetela per quello che è: una piccola e semplice storia.

Come inizio a questa rassegna, la nostra curiosità si è soffermata sulla vicenda di un vecchio personaggio abitante della città di Perugia. Il suo nome è Osvaldo; il cognome non sarà certo importante, importanti sono le sue parole. Egli è nato a Perugia nel 1922. Ora ha 94 anni e preferisce starsene lontano dai parenti che preferisce vedere solo due o tre volte la settimana. In quella casa a due piani è nato, cresciuto e sposato, e in quella stessa casa ha deciso di rimanere fino all’ultimo, troppo vecchio e troppo affezionato per lasciarla vuota. Tra una chiacchierata e l’altra, tra sue infinite esperienze come lavoratore e militare, c’è un aneddoto che vi proponiamo e che meglio, a nostro parere, descrive gli anni più gloriosamente bui del nostro paese. Gli anni della guerra e del totalitarismo, gli anni in cui si viveva sotto un governo rigido e violento ma tu, giovane ragazzino, trovavi comunque il tempo di sfuggire alle regole e goderti la vita, fuori dalle barriere sociali, dalle imposizioni e dalla politica, contrassegnata da nomi di un passato tanto imponente quanto sepolto sotto i millenni e da stoffe di camice monocromatiche. Questa è la sua storia, che cercheremo di trasporre fedelmente, come ci è stata raccontata.

La visita a Milano.

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La dittatura fascista esisteva in Italia ormai da dieci anni. Era il 1933 e Osvaldo era un giovane balilla di undici anni. Solo da un anno lavorava alla grande fabbrica di cioccolato che da anni dava lavoro agli abitanti della piccola città. La madre, la signora Colomba, o sora Colomba come da queste parti era uso chiamare le donne sposate, aveva lavorato in quella stessa fabbrica per quasi dieci anni ma un incidente non le aveva permesso di continuare. Un giorno, mentre stava lavorando alla macchina addetta all’impasto del cioccolato, la sua mano finì negli ingranaggi, così, tutta in solo istante, senza avere la prontezza di tirarla di sfuggire a quella morsa. Due dita furono completamente mangiate da quel mostro di ferro e così fu costretta a lasciare il posto che aveva occupato per tutto quel tempo. Niente di irreparabile, perché dopo neanche un mese la direzione fu così affranta per ciò che era successo che, oltre ad un risarcimento, offrì un lavoro al giovane Osvaldo che da studente con i calzoni corti diventava da quel momento un uomo lavoratore, come egli stesso fu felice di definirsi. Le giornate passate all’aria aperta, nei campi, a giocare a pallone per strada, si potevano dire terminate. Le ore in azienda erano tante e il ragazzo non aveva più tempo per spassarsela come una volta. Ritornato dall’azienda era costretto a svolgere qualche lavoretto domestico per aiutare la madre in casa, oppure faceva d’aiutante a suo padre nella bottega da falegname sotto casa. Il ruolo al quale era più predisposto, racconta, era quello di misuratore di bare; il padre o il vecchio zio costruivano una bara e lui ci si infilava dentro e ciò stabiliva se fosse un lavoro ben fatto oppure no. Dalle bare più grandi a quelle più piccole, sempre se ci entrava è chiaro. Sta di fatto che gli unici due momenti in cui poteva respirare un po’ erano quelli passati al cinema in piazza, dal quale usciva, lui e i suoi compagni, solo dopo aver rivisto lo stesso film due o tre volte e con un solo biglietto. L’altro passatempo era il dopo lavoro che la propaganda di stato aveva l’accortezza di organizzare e imbandire con eventi che a loro parevano interessanti. Il padre, già a quei tempi sessantenne, era uno schedato antifascista, abituato a dormire con un ronchetto sotto il cuscino, ma vista l’età e il modesto lavoro che praticava non aveva tante rogne dagli uomini del partito che aveva la piccola sede in centro città. Per la sora Colomba, non ne parliamo. Era sempre stata una lavoratrice non pratica alla parola o alla politica, cosa che non intendeva fino in fondo, e dopo l’incidente era rimasta a badare alla casa e ai figli dei fratelli o i nipoti del marito: ruolo di grande rispetto e prestigio in una famiglia. Il fratello più grande di Osvaldo, lavorava e seguiva le leggi che venivano imposte senza tante storie. Cosa poteva fare un ragazzino di undici/dodici anni, se non prenderla con la filosofia di un adolescente, specie in quell’epoca. Lavorare, onorare il padre e la madre e obbedire a superiori, sia fuori sia dentro la fabbrica. Perciò, se al lavoro doveva seguire precisi ordinamenti, all’esterno c’era chi pensava anche a quelli che non lavoravano, impartendogli lezioni sulla buona disciplina e organizzando manifestazioni ed eventi ai quali dovevano a tutti i costi partecipare. Ecco perché, dopo mesi di duro lavoro, la propaganda fascista perugina radunò quasi tutti i figli della lupa, i balilla e avanguardisti della zona metropolitana: con una decina di autobus stretti e scomodi, sarebbero dovuti arrivare fino a Milano, la meta precisa era la casa in cui era nato il movimento di Mussolini. Un vero e proprio esodo che dalle montagne dell’appenino avrebbe dovuto svalicarle fino ad arrivare nella piana, e li continuare per molti altri chilometri. Il giovane Osvaldo non era proprio indicato per questo genere di cose, se non per altro che, benché la giovane età, era già un sostenitore delle idee paterne lontano dagli schemi imposti. Eppure dovette andare: lui assieme ad amici fidati, tutti del borgo, vestiti di nero in una giornata di sole, rispondendo al saluto quando ce n’era bisogno. Il viaggio? Interminabile e straziante, tanto che per respirare avevano forato il tettuccio del Bus perché un altro po’ d’aria potesse arrivare. Partirono alle quattro di mattina e solo verso mezzogiorno poterono sgranchirsi un poco le gambe ad una piazzola, per poi ripartire subito e percorrere i restanti quaranta chilometri che li separavano dalla grande città. Osvaldo non descrisse la città, i suoi monumenti, ma si limitò a dire, in verità, come una volta arrivati lì, lui e altri quattro, rimasero eccitati dalla sola vista di un cartellone pubblicitario che sponsorizzava una più avvincente manifestazione. Chissà come e perché quattro ragazzi di una piccolissima città del centro Italia tifassero il Torino, eppure il cartellone parlava chiaro e loro erano fomentati alquanto. Quello stesso giorno, a solo poche ore di distanza, allo stadio, avrebbe preso luogo lo scontro tanto atteso tra Inter e Torino. Forse perché erano solo dei ragazzini incoscienti, forse perché un umbro, o meglio, un perugino, è un essere chiuso e un po’ scontroso, non avvezzo agli ordini e alla disciplina. Sta di fatto che dalle lunghe file di balilla, Osvaldo e i suoi amici non ci pensarono due volte e mandarono al diavolo la casa del fascio e svignandosela come topi, raggiunsero il primo tram che trovarono. Fu proprio una fortuna che il mezzo era proprio quello che li avrebbe condotti alla meta tanto ambita, e così si ritrovarono ai piedi dello stadio fregandosene di tutto e di tutti. La loro fuga non fu vista da nessuno dei responsabili e restarono a Milano fino a quando la partita non fosse terminata e i dieci autobus fossero di già ripartiti. Si erano fatte le nove di sera, cosa potevano fare se non andare alla stazione e prendere il treno. Il viaggio di ritorno fu peggiore di quello d’andata. Sarebbero arrivati solo alle undici del mattino seguente, ma fortunatamente per Osvaldo riuscì ad infilarsi in un porta pacchi sopra gli scomodi sedili in legno. Una lunga dormita disteso sulla superfice di legno gelido, prima di tornare al paese ed essere punito per insubordinazione. Olio di ricino e tre mesi al reparto caramelle, uno dei più duri.

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2 risposte a “Cronache di un vecchio perugino”

  1. Avatar Vincenzo

    Che bella iniziativa e che bel modo di cominciarla… queste storie di vita del novecento mi affascinano, soprattutto quando sono riportate in una prosa accattivante, come nel caso di questo articolo ??

    1. Avatar malberock

      Grazie. Sei molto gentile e sempre sul pezzo 🙂 Troveremo altre testimonianze!

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