Per chi non lo conoscesse, o poco sapesse sulla vita di questo mirabile interprete, Gian Maria Volonté è stato uno dei più grandi attori italiani, sia in campo teatrale sia in quello cinematografico, unico e travolgente nelle farse artisticamente messe in piedi per farlo recitare.
Sono quasi sicuro del fatto che Elio Petri, visionario regista a cavallo tra gli anni sessanta e ottanta, avesse ben chiaro il suo ruolo nel mondo del cinema; quello di fare film dove potesse apparire Gian Maria Volonté in tutto il suo splendore recitativo. Naturalmente è un’idea che, per chi vede l’attore milanese come vero mattatore, a differenza di altri, manderebbe certamente in sollucchero.
Di certo Elio Petri è Elio Petri ed è importante e impareggiabile proprio grazie al suo immaginario, e il fatto che Gian Maria Volonté sia personaggio principale in molti dei suoi film è stata una combinazione chimicamente e scientificamente riuscita che ha provocato una reazione nell’orizzonte cinematografico italiano; ha posto in primo piano un grandioso regista da una parte, e un instancabile artigiano del teatro e operaio del cinema, quello stesso settore artistico che poi ha aperto la strada a rimaneggiamenti che tuttora sono prodotti e che creano interesse e stupore.
Molti non sanno che parte di questi elementi, nascono proprio da quegli anni, e Gian Maria Volonté è una sorta di precursore e maestro anche se la sua modestia non avrebbe mai potuto porsi davanti al suo intelletto di sinistra atto a guardare la massa piuttosto che il suo piccolo posticino da attore già arrivato. La sua, è quasi sicuramente una delle carriere artistiche più importanti, più influenti e, di sicuro, più incredibili e strane, violente e spasmodicamente energiche che si siano mai viste e raccontate.
Gian Maria Volonté nasce a Milano il 9 aprile 1933 da una famiglia con problemi economici e finanziari. Il padre è un militante fascista, la madre apparteneva a un’aristocratica famiglia milanese. Compie i suoi studi a Torino ma dopo aver lasciato i suoi studi all’età di quattordici anni, decide di guadagnarsi da vivere per conto e fino ai sedici anni lavorerà in Francia arrangiandosi in continui lavoretti. In questo periodo, nasce in lui l’amore per la letteratura, in seguito quello per il teatro dopo aver lavorato come guardarobiere in una compagnia teatrale.
Nel 1954 entra a far parte dell’accademia nazionale di arte drammatica Silvio D’Amico e per circa tutto il decennio riuscirà a fortificare la sua nascente passione per la recitazione grazie anche al lavoro svolto per la televisione, per la quale interpreterà personaggi emblematici di grandi opere letterarie come nella trasposizione televisiva de “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij, quello di Nicola Sacco in “Sacco e Vanzetti” o quello di Caravaggio. Ma è solo a partire dagli anni sessanta che arriva l’illuminazione e il motivo per il quale è maggiormente riconosciuto.
Il cinema, all’inizio, sembra proporgli ruoli atti alla sperimentazione e a un costante allenamento. “La ragazza con la valigia” di Zurlini, “A cavallo della tigre” di Luigi Comencini o “Un uomo a bruciare” dei fratelli Taviani, sono tutti espedienti e anticipazioni di quella che sarà la sua vera vocazione: non un attore dedito a qualsiasi ruolo per raggiungere immediatamente la gloria in cartelloni e locandine pubblicitarie, bensì un uomo ribelle alla società, quello che poi sarà la sua vera esistenza, trasportato in opere a sfondo sociale all’interno delle quali sono le lotte sociali a fare da cornice, le intimidazioni mafiose e terroristiche della politica italiana degli anni sessanta e settanta, individui al margine della società o quelli all’apice di un successo che sebbene tutto lo sfarzo di una vita e una carriera impeccabile, nascondono il marcio sociale, la malattia del tempo presente.
Passano ancora anni di ruoli obbligati ed economicamente utili. Dal sessanta al settanta quattro il suo volto prende diverse forme: è Michelangelo Buonarroti nello sceneggiato RAI, Ramon Rojo in “Per un pugno di dollari” e El Indio in “Per qualche dollaro in più” entrambi diretti da Sergio Leone, padre del Western all’italiana. Dopodiché, Monicelli lo chiamerà per il ruolo di Teofilatto di Bisanzio ne “L’armata Brancaleone”. Periodo questo di grande lustro per farsi realmente conoscere, sebbene sempre in disaccordo e lontano dai suoi veri ideali, eppure ruoli in cui si va subito a mettere in evidenza una cesura tra la vecchia scuola recitativa e quella nuova capitanata proprio da Volonté così come da altri suoi coetanei, colleghi e futuri attori. L’idea di una recitazione lontana dalle regole o almeno dalle interpretazioni precedenti, che con una sorta di scattante sonnolenza entra nel personaggio e gli conferisce un grande carattere e un segno di riconoscimento. Sonnolenza o leggero torpore dato il suo modo nuovo di entrare a contatto con i protagonisti, le macchine da presa e il pubblico: in maniera inizialmente flemmatica e fuori da un tempo mai preciso, per poi scattare come un felino e dominare la scena.
Quello che comunque va aggiunto di Volonté è proprio la sua propensione nell’entrare saldamente nel ruolo con studi maniacali e precisi, acquisizioni di elementi particolari e dettagli il più delle volte non suggeriti o voluti dai registi o produttori, ma un personale studio scientifico e approfondito sul personaggio interpretato. Un camaleontico felino vorace di veritiera interpretazione. “Quien Sabe?”, “Banditi a Milano”, per arrivare al primo lavoro con il già citato Elio Petri in “A ciascuno il suo”, per poi arrivare, solo tre anni dopo, nel 1970 al vero trionfo, la consacrazione totale come attore di quel cinema sociale e dirompente. Il ruolo del capo della polizia nel capolavoro immortale “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.
Diretto da Petri, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero, è un’epopea politico giudiziaria in cui la giustizia si camuffa, la società stessa è alienata e camuffata dall’elemento rivoluzionario dell’illegalità e dagli stessi uomini di giustizia. Alienazione, giustizia quasi divina e irraggiungibile, che saranno un po’ i temi principe della regia di Petri, o almeno riscontrabili maggiormente in quelle pellicole in cui Volonté torna a vestire i panni del protagonista; Il professor Laurana in “A ciascuno il suo”, il capo poliziotto in “Indagine su un cittadino…”, e poi quello dell’operaio Mimì ne “La classe operaia va in paradiso” e l’ultimo a fianco di Petri e lo sceneggiatore Ugo Pirro, “Todo Modo”, apocalittica visione della società italiana in cui ogni partito e ogni governo sembra rassegnato ad attendere quella giustizia suprema; intanto i capi e chi muove le redini si fanno giustizia secondo la propria morale. Storico cambio di programma in questo film quando Petri si accorse che il personaggio di Volonté non assomigliava ad Aldo Moro, erano in sostanza due gocce d’acqua. Dovette ambiare recitazione prima di cadere in denunce. Il ruolo del democristiano lo ricoprirà più avanti.
Da quel 1970, Volonté sembra aver capito il suo scopo nella vita, e l’ardente passione politica lo impiegherà sempre in film dediti alla denuncia sociale e politica. Il ruolo di giustiziere che piano piano, sebbene la mimesi completa, lo trasporterà in un cinema fatto solo di questi ruoli, rinunciando alla fama fuori Italia e fuori alcune nazioni europee, e soprattutto alla fama di Hollywood che più di una volta lo aveva richiesto. Sarebbe diventato, molto probabilmente, uno dei più grandi attori viventi. Quella speranza rimase nascosta in quelle opere che lui voleva fare così come la sua innata, e allo stesso tempo studiata, bravura.
Con l’arrivo degli anni ottanta, la sua crisi depressiva si fa sempre più forte, dato lo scarso impegno e i piccoli ruoli che deve ricoprire in film non sempre al massimo del loro splendore; realizzati, alcuni, con poco interesse e gusto, e portandosi appresso, oltre all’insuccesso, anche lo stesso Volonté. Uno degli ultimi film che gli renderanno la riconoscenza meritata, è “Cristo si è fermato a Eboli”, tratto dal romanzo di Carlo Levi e diretto da Francesco Rosi, già suo regista in “Uomini contro”, “Il caso Mattei” e “Lucky Luciano”. Rosi, così come Petri e Giuliano Montaldo, fu uno degli autori con il quale Volonté poté cimentarsi di più nel suo camaleontismo e avere maggiore libertà interpretativa.
Dopo un’ultima serie di piccoli parti, sarà chiamato per partecipare al film di Theo Angelopoulos “Lo sguardo di Ulisse”, ma morirà durante le riprese a Florina, in Grecia, il 6 dicembre 1994 all’età di sessantuno anni. Grande attore, grande attivista sociale, interprete e cittadino maniacale per entrambi le parti; sul piano lavorativo e per quanto riguardava la società che lui rappresentava in campo lavorativo e in quello quotidiano di tutti i giorni. A mio avviso, un gioiello del nostro cinema troppo fedele e nostrano, troppo legato a un genere ma che per lui significava tutto, tutto quello in cui credeva. Quella sua idea di mischiare vita privata con il lavoro fu uno dei suoi blocchi per qualcosa che avrebbe fruttato molto di più; allo stesso tempo, tale elemento, di disturbo o di contorno, è tale da renderlo una figura salda e immortale del nostro cinema.
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