Ci sono registi che nel corso della loro carriera si cimentano volentieri nel ruolo di attore, perché hanno il cosiddetto fisico del ruolo, una bravura, per quanto piccola possa essere, che gli permette comunque di tenere testa agli altri interpreti. Poi c’è la categoria di attori che, a parte qualche ruolo sotto la direzione di qualcun altro all’inizio di carriera, decide di essere il regista di se stesso e per tutta la loro vita non fanno che quello, avendo così l’abilità di essere entrambi contemporaneamente. Si pensi solo a un Sidney Pollack, a un Orson Welles, un Woody Allen, Clint Eastwood, Carlo Verdone, e per quanto piccole possano essere le sue parti, anche Tarantino da l’idea di non essere proprio un cane difronte alla macchina da presa. Ma queste due categorie, registi attori e attori registi, spesso, anzi molto più spesso di quanto si pensi, non vanno d’accordo; se uno è un buon regista come attore potrebbe fare davvero pena e viceversa, se uno fa, per tutta la vita, l’attore, una volta che si ritrova a dirigere il film non sa nemmeno da che punto partire. Ecco perché, sebbene ce ne siano di esempi, il più delle volte il regista dirige solamente e l’attore si limita a recitare. Eppure, c’è sempre qualcuno che cerca insistentemente di ricoprire entrambi i ruoli senza rendersi conto di quello che realmente sta facendo: un brutto film. Per un personaggio come Claudio Amendola, così come accadde per Alberto Sordi, il ruolo del regista sembra non calzargli troppo bene. A fatica riesce a girare un’opera che solo in alcune sue parti si può ritenere carina, ed è quello che succede ne Il Permesso – 48 ore fuori, ora nelle sale cinematografiche.
Un film che vuole sembrare molto di più di quello che in realtà lo spettatore capisce che sia. Un film mascherato da un frizzante trailer, che tenta di essere una risposta a un qualsiasi gangster-noir americano, prodotti a migliaia nel giro di cinquant’anni. C’era stato un rinnovamento del cinema d’azione, poliziesco e thriller italiano negli ultimi due anni. Con pellicole come “Suburra” di Sollima o “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Mainetti, e anche nelle serie televisive, potevamo sentirci anche noi fieri di aver fatto qualcosa di grande interesse e bellezza alla pari con un prodotto americano, e in più con quel nostro particolare interesse per la salvaguardia di elementi puramente italici, come il dialetto, le gestualità, i modi di fare. Insomma, una sorta di spaghetti Western ma con altri generi. Amendola, come una macchina in corsa senza freni, gira tutto in fretta e nel pentolone butta un’accozzaglia di rimandi, tributi e banalità ripresi da altri film italiani e non, crea un qualcosa che potrebbe avere tutto ma non la cosa fondamentale, in altre parole quell’interessante briosità nel catturare lo spettatore.
Quattro personaggi che hanno passato i loro ultimi anni in carcere, ottengono il permesso di uscita per 48 ore, allo scadere di quelle devono fare ritorno nel penitenziario e finire di scontare la pena. Uniti da questo permesso che gli consente di fare ritorno verso la propria strada, verso la vita che avevano prima, nella speranza di risolvere i conti in sospeso. Donato (Luca Argentero), che lo ritroviamo qui con la ferocia di un lupo, tenta di riprendersi la sua donna e salvarla da giro di prostituzione comandato da un grasso e pelato malavitoso con un singolare accento napoletano romano. Dopo un incontro di Kick Boxe, viene a sapere da quest’ultimo che la sua compagna è morta e lui sta per fare la stessa fine. Dopo una notte passata allo stato animale, torna per la sua vendetta. Luigi (Claudio Amendola), è un ex criminale, rapinatore che cerca di sistemare i suoi problemi familiari. Il suo unico figlio, spacciatore, fa concorrenza a Goran, il capo della piazza di spaccio che vuole indietro i suoi soldi. Luigi, dopo aver fatto capire al figlio che non potrà mai essere un duro e un assassino a sangue freddo, lo fa allontanare verso Milano e di lì a poco attende Goran e i suoi scagnozzi armati di pistole e mitra. Ma Goran è sempre rimasto uno spietato criminale, mentre Luigi sta per redimersi e arriva alla salvezza ghignando in faccia al nemico per poi essere trapassato da una scarica di colpi che lo freddano: secondo le dinamiche sembra che la scena sia un chiaro tributo a quella di Gran Torino, quando Clint Eastwood, finge di sparare contro i cinque malviventi per essere volutamente ucciso e finire la sua vita in bellezza. Unica differenza è che nel film italiano tutto appare banale e troppo leggero.
Infine ci sono i due giovani personaggi di Angelo (Giacomo Ferrara), un pischello di borgata senza soldi arrestato per tentata rapina, e Rossana (Valentina Bellé) ragazza viziata e con problemi verso la madre e la ricca famiglia. Due personaggi legati da un amore che solo nel finale sarà svelato, dalla volontà di cambiare vita e per farlo ritornano in carcere com’era di dovere, senza fare la fine degli altri due protagonisti, ormai braccati dai rimorsi e da una vita segnata dal crimine e dal senso di morte sempre vicina e costante.
Per quanto sia un bel messaggio di speranza verso le giovani generazioni, un messaggio di rivincita verso una società dura e violenta, è la cornice che è debole e per di più in una storia vista e rivista che non riesce a emozionare se non in alcune sue piccolissime parti. Il problema del film, è che non ha nemmeno del trash, ed è come se si fossero impegnati profondamente per creare qualcosa di veramente brutto e aggiungerei patetico. Oltre la trama scarna e moscia, rammolliti sembrano i quattro protagonisti; a parte un sobrio Amendola, che sembra più un macellaio che un criminale, gli altri non hanno nulla di così emozionante. Argentero è un po’ fiacco e tale caratteristica si ripercuote anche sui due attori più giovani. La musica che subentra di botto in ogni scena stanca, e sembra voglia nascondere, in assoli di chitarra elettrica, la non buona riuscita del film, come se volesse mascherare le imperfezioni aggiungendone di altre. La cosa che veramente più si nota, e che è quasi una rarità al giorno d’oggi, è la qualità recitativa degli attori che non fanno altro che cadere in inflessioni dialettali senza senso, e a fatica si crea il giusto connubio tra telecamera e attore. Un film che, sebbene le ripetitività, poteva essere riconosciuto maggiormente, invece cade con la stereotipata descrizione della malavita della capitale e delle città circostanti, con gli stereotipi della violenza e delle volgarità nostrane che si mischiano a effetti e battute di un cinema americano un po’ vecchio stile, ma rimane comunque fermo e inchiodato, polarizzato nel banale e, per di più, in un lavoro che non si può considerare ben fatto.
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