Trump ha sganciato la bomba; è il momento giusto per tornare a parlare del vecchio Osvaldo e del modo in cui ha potuto raccontarci del secondo conflitto mondiale. Una storia che parte pressappoco alcuni mesi prima che il ventenne protagonista potesse partire per Roma, dove si sarebbe terminato il suo addestramento e avrebbe potuto seguire gli altri giovani compagni verso il fronte stabilito dall’alto comando; sarebbe sicuramente successo, se la guerra non fosse finita prima del tempo.
Chiamato alle armi, Osvaldo è costretto a lasciare l’azienda dolciaria dove lavorava ormai da cinque anni. Salutato il padre, un vecchio falegname detto il biondo, per via dei quattro capelli in testa di un giallo accesso, e la madre, ancora giovane sebbene provata dal duro lavoro, il nostro uomo è fatto salire su di un treno. Dopo aver superato Assisi e le zone limitrofe, giunge, alcune ore più tardi, a Foligno. Qui prende parte a ore e ore di addestramento, esercitazioni al poligono di tiro e alla guida dei camion militari che, come ricorda, avevano quasi tutti le ruote piene, in altre parole senza camera d’aria e completamente dure, uguali a quelli utilizzati nella prima guerra mondiale. Questo è solo un piccolo accenno per quello che più tardi si sarebbe capito in maniera più lucida; non era una guerra per l’Italia e i mezzi di cui l’esercito disponeva erano sorpassati per gli altri stati che avevano preso parte al conflitto. “Tanto ci sono i tedeschi che ci difendono”, aveva avuto modo di dire un suo commilitone giorni prima della catastrofe, e mai parole furono più vere. Il secondo episodio, forse più incisivo, di come non potessero essere un grande impero ed esercito, capitò sulla pelle dello stesso Osvaldo che, munito di topolino, aveva avuto l’ordine di portare una coppia di mitra, alcune bombe a mano e un moschetto dalla città di Palestrina fino a una caserma non lontana da Roma. Ebbene, quel moschetto era un sopravvissuto della prima guerra e non c’era verso di farlo entrare nella topolino, già abbastanza carica in quel modo. Dopo successivi tentativi e la solita sfilza di bestemmie, il giovane soldato riuscì miracolosamente a cavarsela e ad arrivare in tempo dal comandante dell’altro comando. Aveva dovuto sfondare il finestrino posteriore per far si che l’arnese da guerra potesse essere trasportato; non aveva né corde né altri strumenti per legarlo sopra il tettuccio. Quando era lì per partire gli fu fatto severamente notare che la strada verso la meta era sconnessa, piena di buche, e avrebbe sicuramente perso il moschetto. Fu costretto a guidare e a cambiare marcia con la sola mano destra mentre con la sinistra si sforzava a reggere la pesante arma fuori dal finestrino e in bella mostra. Proprio un grande esercito.
Comunque, da bravo lavoratore, senza fare tante storie riuscì a filarsela prima da Foligno e dopo delle settimane anche da Palestrina, fino a raggiungere Roma per la fase finale del corso; l’esercito necessitava di truppe fresche per il fronte. Osvaldo ricorda di come suo fratello, più grande di lui di nove anni, fosse stato chiamato in Russia e da quando aveva messo piede a Roma, il fratello non aveva più scritto. “Erano altri tempi”, continua raccontando, e bisognava perciò non patire troppo ma stringere i denti e resistere, anche se avevi un caro lontano, anche se ti mancavano i tuoi genitori e avevi una gran voglia di rivedere la tua città. Quei mesi in caserma nella capitale non furono poi così devastanti: l’unico grande problema era, dice, le cimici che anche in inverno uscivano dai muri lerci dello stabilimento e s’infilavano nei buchi del materasso, e il rancio. Una sbobba di minestra, riso e quant’altro, cotta senza cura e sostanza. Per questo fatto, fortunatamente per lui, arrivarono dei cuochi che venivano dalle parti di Norcia. Visto la pena che avevano provato nel vedere la denutrizione dei soldati, a Osvaldo e altri compagni perugini e umbri riservavano un vassoio nascosto dopo il quotidiano pasto, con salsicce in abbondanza e altro ben di dio. Tuttavia quei giorni di relativa quiete stavano per finire, e anche se Osvaldo non partì mai per il fronte, ebbe modo di vivere, un giorno particolare, l’orrore che la guerra stava portando anche in quell’apparente oasi felice che era la caserma militare. Proprio quando aveva ottenuto le carte per trasferirsi di nuovo a Foligno, avvicinandosi così alla famiglia, dovette ripartire per un’ultima consegna a Palestrina ma sulla strada per raggiungere la meta, bucò una gomma e non poté né ripartire né mangiare se non il giorno seguente, quando l’ultimo treno per Foligno era ormai partito e quando una pattuglia era accorsa in suo aiuto. Nel frattempo non c’era stato più bisogno di tornare a Palestrina, così ripartì verso Roma, incazzato ed esausto. Con lui c’era un altro soldato, umbro anche lui e amico d’infanzia: è strano sentire come anche in quelle situazioni cameratesche e affollate di gente, si costituissero singoli gruppetti in base alla propria regione e città di provenienza. Arrivati al quartiere Parioli, una sirena lontana ruppe la monotonia di quel viaggio in procinto di concludersi. Fecero in tempo a spingere di corsa sull’acceleratore e infilarsi in un garage aperto di una casa. Dopo qualche minuto, la fuori si scatenò l’inferno e degli aerei americani, quadrimotori, riversarono sulla città centinaia di bombe. Non appena il rombo dei motori fu lontano e uscirono dal garage, una donna, completamente ricoperta da uno strato denso di polvere e sconvolta, svenne tra le loro braccia quando l’ultimo ordigno ebbe finito di scoppiare.
Non tornò subito a Foligno. Rimase ancora qualche mese in zona ma gli fu detto che a breve sarebbe potuto andarsene con il treno. Invece si trasformò in una fuga a piedi perché quando i nemici erano diventati alleati, i tedeschi iniziarono a rastrellare e uccidere civili e soldati italiani, specialmente a Roma. Fu così che alcuni colpi di mitra sul piazzale della caserma, diedero il via a Osvaldo e i suoi, tra cui un colonnello, per prendere il largo e scappare più in fretta da quel posto. In aperta campagna furono ripresi da quattro soldati germanici, che però non li uccisero. Dopo uno scambio di parole con il colonnello, Osvaldo e gli altri poterono andare, o meglio correre, mentre il superiore fu preso e fucilato; va a capire che si erano detti. Dopo quell’incidente, come il vecchio Osvaldo lo chiama, alcuni di loro si separarono pochi chilometri prima del confine, mentre lui e altri tre poterono varcare la soglia e ritrovarsi in Umbria ma ancora la guerra non era finita, dovevano stare attenti. Ben più strani ostacoli si pararono sulla loro strada. Il fiume Topino, luogo che stava a indicare il costante avvicinamento verso casa, era uno di quegli ostacoli. Un ponte ferroviario, lungo all’incirca cinquanta metri, non aveva più le tavole di legno. Stavano per tornare indietro, impauriti e sfiniti, ma non appena udirono un altro suono di spari, decisero di attraversarlo strisciando così velocemente che in meno di dieci minuti erano già dall’altra parte ed erano quasi alle porte di Foligno, dove furono prelevati, messi al riparo e dopo due giorni rispediti a Perugia. Scese a mezzogiorno alla stazione centrale della città, si salutò con i tre commilitoni, e si avviò a piedi verso il piccolo quartiere, dove abitava, di là della piana. Sua madre, appresa la notizia del suo ritorno da un amico di famiglia che lo aveva visto aggirarsi dalle parti della fabbrica, si precipitò giù per la discesa e arrivata a metà piana, lo incontrò, sporco, denutrito ma vivo. Il padre, invece, seppe del suo ritorno, ma finì prima di piallare un armadio e stuccarlo, poi si appropinquo dal suo secondogenito.
Gli ultimi mesi prima della fine della tragedia furono per Osvaldo segnati da alcuni episodi ben precisi. Il primo fu il tanto sperato ritorno del fratello maggiore, Orlando, dalla Russia. Tornato come uno di quei tanti cadaveri viventi che camminavano senza fermarsi, non prima di aver rivisto le famiglie, gli amici, e aver ripreso le loro abitudini. Il secondo fu segnato dal suo impegno come volontario nel recuperare le persone dalle macerie causate dalle bombe aeree. Chiamato d’urgenza, andò a Passignano, un piccolo paese sulle rive del lago Trasimeno, e ciò che trovarono sotto le pietre della galleria ferroviaria era il cadavere di una giovane donna che segnava il continuo accumulamento di cadaveri e cicatrici sul suolo d’Italia, ma forse la speranza di un termine, di una fine a tutto questo. Speranza che si fece viva non molti mesi più tardi, quando i soldati tedeschi, ritirandosi verso nord, si ritrovarono per le vie della città di Perugia che espugnavano in cerca di cibo e riposo. Un uomo, un coetaneo del giovane protagonista di questa storia, fascista convinto fino alla fine, fece la spia alle truppe germaniche dicendo loro che nelle grotte dei monti circostanti si erano rifugiati alcuni ebrei oltre a donne, anziani e bambini. I soldati non più alleati andarono sul luogo descritto dall’uomo, ma quest’ultimi, non appena videro i civili nascosti, si limitarono a dare loro del pane e dell’acqua e la paura era già lontana. Quattro giorni più tardi, i tedeschi se ne andarono, e Osvaldo poté assistere alla vendetta popolana verso il terrore della dittatura che per anni li aveva castigati e puniti per crimini mai commessi. La vecchia maestra Pucci, perfida donna iscritta al partito fascista, che aveva l’abitudine di sbattere la testa dei suoi alunni sul banco, fu presa, rapata, inzuppata nel piscio, legata su di un asino e presa a calci, pugni e sputi fino a Porta Sole, la parte più alta della città: da lì, slegata e lasciata lamentarsi delle sue piaghe. Inoltre, la spia fascista di quattro giorni prima, venne ripetutamente bastonata, lui e i suoi fratelli, da un certo Mandino, antifascista e comunista, così forte che l’unica cosa che ebbe la forza di dire fu “Babbino, babbino, viemme arpija col carrettino!”. Storica frase di fine della guerra che mette allegria sul volto del vecchio Osvaldo, nostro cantastorie.


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