Sarebbe bastato alzare lo sguardo dal lungomare, per vedere quella coltre che sovrastava il Vesuvio, proprio come il disco volante alieno in “Indipendece day”.
Nell’andirivieni urbano, quotidiano, mondano, qualcuno, colto d’improvviso, deve aver pensato all’apocalisse (“e gli uomini vollero le tenebre piuttosto che la luce”), la rivelazione (apokálypsis) di Dio sulla terra, forma assoluta dell’esistenza nel suo compimento: il furor metaphysicus (furore metafisico).
Forse l’uomo moderno, abitante di un mondo tecnicizzato e globalizzato ha voluto contestare alla natura il suo predominio, mostrandosi padrone (grazie a Prometeo) dell’elemento distruttivo per eccellenza: il fuoco.
La piromania in fondo è un rituale vecchio quanto l’uomo, un’usanza che unisce imperatori e sociopatici, un atto che spoglia l’uomo della sua diversità come uomo rispetto all’uomo, e che lo veste si autorevolezza nei confronti della natura, degli animali, delle foreste.
Del resto Tolkien aveva reso perfettamente l’idea che un vulcano (Monte Fato) potesse essere all’unisono l’ombelico di un universo ed il portale del suo inferno, un luogo magico per grandi imprese, dove l’uomo trova il Dio, il Dio vede l’uomo, e dove forse l’uomo si scopre Dio, ed il Dio si scopre uomo.
Sin dall’epoca delle colonie della magna Grecia il Vesuvio (spalleggiato dal monte Somma) è riconosciuto come emblema e vessillo dei luoghi partenopei.
“L’unico vulcano attivo dell’Europa continentale e quello più studiato nel mondo, nonché uno dei più pericolosi a causa dell’elevata popolazione delle zone circostanti” recita la pagina wikipedia, ma sopra quei milleduecento metri queste parole devono sembrare incomprensibili davanti all’infinita potenza del vulcano, di quella montagna sacra che chiamiamo Vesuvio, e che ha visto molte più cose di quanto una mente umana possa immaginare.
Con la sua simbologia fallica, il Vesuvio, come un qualsiasi vulcano o una montagna, rappresenta un luogo di ascensione, un axis mundi, un luogo di transito tra la terra e il cielo, un portale per ciò che è totalmente altro (Rudolf Otto) dall’uomo. Secondo il culto zoroastriano, sulla punta della loro montagna cosmica, si trova un ponte (il ponte di Cinvat), dove si trova a transitare l’anima di un defunto, tre giorni dopo la morte. Seconda la tradizione l’anima sarà giudicata da un tribunale composto da tre divinità (tra cui Mithra): se è stata malvagia, il ponte si restringerà sempre di più fino a farlo precipitare nella punizione eterna delle sua azioni; se è stata buona, dall’altra parte del ponte, gli verrà incontro una bella donna (daēnā) che lo aiuterà ad attraversare il ponte che lo condurrà fino alla culla dell’universo.
Forse era un ponte per un nuovo mondo quello che cercò Spartaco quando si rifugiò sul Vesuvio con la sua armata di ribelli: fa effetto immaginarsi la scena di Spartaco, il gladiatore, il guerriero della Tracia, il rivoluzionario, in piedi affacciato sul cratere che dà sul luogo d’incontro e di unione tra il Tutto e il Nulla. Forse rimase un po’ deluso da quel luogo di confine (a livelli di trascendenza non migliore della porta dell’Ade nel lago d’Averno), aspettandosi di trovare in cima al Vesuvio un ambiente simile al Monte Olimpio (dimora di divinità) o forse quell’incantevole bellezza di distruzione deve averlo ispirato a grandi imprese, le stesse che lo portarono su una croce.
A contestare con occhi umani la dilagante eruzione del 79 d.C c’era Plinio il vecchio (la cui tragica storia fu narrata dal nipote Plinio il giovane), la stessa che distrusse Ercolano e Pompei, dove la cancellazione della vita di quei centri fu il passaporto che traghettò quei luoghi (ora mitici) nella storia.
Ciò che fece incontrare a Plinio il vecchio la morte lo fece anche entrare nella storia come “protomartire della scienza sperimentale” (Italo Calvino): la sua blanda descrizione della natura, il suo trattato naturalista, Naturalis historia, non placava il suo desiderio di “partecipazione” più che di conoscenza: doveva essere là, vedere coi suoi occhi, esperimentare il suo “esserci” (Heidegger) all’unisono con l’Essere del Vesuvio. Sentire il calore del sangue del vulcano, della lava che si avvicina intrepida, fino a sparire tra le nebbie vulcaniche. Un lieto fine prometeico da “ceneri eri e cenere ritornerai” per abbracciare la comunione con la natura in tutti i suoi aspetti (soprattutto i più dissacranti).
Secondo un culto popolare l’eruzioni del Vesuvio preannunciavano (o seguivano) l’accadere storico che si sarebbe riversato nel mondo, come un sovrano che controlla il suo reame dall’alto del suo castello, pronto a scalpitare per un insulto, e a far ritornare, con la sua forza dirompente, l’ordine del suo volere, pronto a firmare i suoi decreti con il sangue; come per l’eruzione che nel ‘600 annunciò l’arrivo di Masaniello tra le strade di Napoli.
Leopardi poco prima di morire pensò proprio al Vesuvio, alla sua incombenza e alla sua potenza:
Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
In pochi oggi scalano il Vesuvio per cercarvi passaggi mistici, per rincorrere con i loro occhi le forze della natura, o ricercare oracoli nei suoi movimenti. Ma per appiccare il fuoco, l’uomo non si sente mai troppo arcaico. Con una torcia in mano vede la potenza in sé, balla come se stesse ancora al cospetto di Prometeo, festeggia l’era del suo dominio sulle cose, sull’intelligenza, sulla stupidità.
Lassù da qualche parte dev’esserci forse ancora una ginestra che protende nella consolazione dell’uomo, quello stesso uomo che può ritrovarsi un giorno a guardare in alto e vedere l’oscurità dirigersi verso di lui. Qualcuno, guardando quell’incerto destino fatto di fumo, deve averci pensato.
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