Ingmar Bergman – L’omaggio al maestro

Ingmar Bergman, al festival del cinema di Berlino, si ritrovò ad essere membro della giuria assieme a Bernardo Bertolucci. Dopo uno scambio di bigliettini tra i due, in cui il regista italiano lo pregava di continuare a fare film, Bergman gli passò un biglietto sul quale aveva scritto: “Cinema will kill me, but you go on with fight”.

Una frase che, secondo la testimonianza dello stesso Bertolucci, riassume gran parte della vita del grande regista svedese. Una battaglia iniziata da giovanissimo, quando gli era stata impartita dal padre, pastore luterano severissimo della città di Uppsala, una dura ed esasperante educazione nella preghiera, nel peccato e nella confessione. Specialmente nella punizione. Ogni parte della sua esistenza fu drasticamente segnata da quegli eventi di vita familiare, anche quando scappò di casa e andò a studiare a Stoccolma e quando abbandonò l’università per avvicinarsi al mondo del teatro e dello spettacolo.

Riuscì quasi miracolosamente a trovare un posto come suggeritore per L’Orfeo all’inferno, aiutato finanziariamente da una ballerina. Era il 1936, e da quel momento il giovane Ingmar Bergman iniziò una lunga e assidua scrittura di drammi teatrali fino a quando, intorno agli anni ’40, non fu convocato dalla Svensk Industrie che lo assunse con uno stipendio mensile di 50 corone. Partecipò alla lavorazione del film Hets e successivamente già gli fu affidata la regia di un altro film. Una commedia romantica, come se ne ritroveranno parecchie nella sua prima fase, che lo portò piano piano ai primi veri successi. Un estate d’amore, Donne in attesa, Monica e il desiderio e Sorrisi di una notte d’estate, il film che lo fece conoscere in tutta Europa.

Tuttavia il primo vero capolavoro è schedato 1956. Il settimo sigillo, è sicuramente uno dei suoi lavori più riusciti e ricordati di tutta la cinematografia. Con pochi mezzi Bergman  riesce a restituire, o meglio, accrescere maggiormente la teoria fatale e vitale del gioco degli scacchi; da molti poeti e scrittori cantato secoli prima. La storia è un gioco a scacchi tra il cavaliere Antonius Block, di ritorno dalle crociate, e la morte che lo seguirà fino alla fine, quando i protagonisti lasciano la scena ballando dietro alla triste figura del mietitore. Un medioevo cupo in cui la via della salvezza è sempre difficile o anche impossibile da raggiungere. Sebbene dietro ci sia comunque il velato gioco dell’esistenza che lascia liberi e vivi alcuni mentre altri seguono un destino diverso.

Il-settimo-sigillo-II di Ingmar Bergman

Altro film, da molti considerato il suo più poetico, è Il posto delle fragole: opera alla quale dedicò così tanto del suo tempo che alla fine delle riprese fu ricoverato per un esaurimento. Un instancabile forza lavorativa che lo teneva occupato per mesi e anche anni prima di riprendere a girare. Molte furono le crisi che lo scossero costringendolo a fuggire in luoghi lontani e quasi sperduti. In tutta la sua vita intervallò il suo lavoro nel cinema con le rappresentazioni teatrali in tutta Europa. I temi sulla crisi dell’esistenza e le verità che si celano in questo immenso universo sono fondamentali, sempre verdi nei suoi film. Crisi e dubbi che lo riguardarono molto da vicino. Bergman, in ogni sua pellicola è come se si svestisse difronte al pubblico e raccontasse un pezzo di se, di ciò che più lo stimola o che gli fa paura.

il_posto_delle_fragole Ingmar Bergman
Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di “Il posto delle fragole”

Stando alle ultime statistiche sull’aumento della vita media, anche lui, probabilmente, sarebbe riuscito ad arrivare fino ai giorni nostri; magari regalandoci qualche altra storia: una delle sue. Con le parole di Bertolucci vi lasciamo consigliandovi di riscoprire il tempo perduto di Ingmar Bergman. Uno di quegli autori che ha cambiato il cinema moderno. Fanny e Alexander è stato il suo ultimo film cinematografico. Si dedicò fino alla sua morte di opere televisive e teatrali. Ben altre opere restano immortali. Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Sussurri e grida, Scene da un matrimonio e Fanny Alexander sono manifesto del suo cinema rinnovato sia nella recitazione sia nell’uso del linguaggio tecnico, dietro ed oltre la macchina da presa.

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