Fenomenologia delle Baccanti – Regia di Andrea De Rosa

Presenziare ad una rappresentazione delle Baccanti di Euripide come quella della regia di Andrea De Rosa al Teatro Grande di Pompei (14,15,16 luglio 2017), oltre che un’occasione per riflettere, è anche un’occasione per rivivere le più antiche sensazioni ed emozioni per cui l’uomo antico ha memoria. Un’occasione per ritrovare quell’antica ‘’partecipazione’’ da cui è nata la Tragedia e l’arte antica.

Il fumo ci scompigliava i capelli, portandoci in su il volto, verso le nuvole pregne del color del sangue. Quando lo spettacolo iniziava, con la voce di un Dioniso androgino (Federica Rossellini), il volto oscurato dai lunghi capelli rossi, il corpo mezzo nudo, retto nella sua cupidigia davanti ad un microfono come una rockstar, d’un tratto il tramonto compì il suo percorso tramutando la luce in tenebra, la stessa tenebra nella quale avevano luogo i culti misterici e i riti dionisiaci, dove l’uomo e il dio entravano in comunione. Tra musica, luci, danza e toni moderni si ricrea un effetto psichedelico, ed  un cane, attirato dalla cerimonia, sale sul palco attratto dalla danza convulsiva delle baccanti, e finisce a ballare con Cadmo (Ruggero Dondi). Il cane doveva aver percepito l’animalità prorompente che scaturiva dalla frenesia di Cadmo e Tiresia (Marco Cavicchioli) eccitati dalla grande rivelazione: ’’Il Dio è qui!’’.

Fin dall’entrata del pubblico nel teatro, Penteo (Lino Musella) ci dà le spalle, seduto in una poltrona rossa come quelle dei cinema, un trono da circense, lo stesso dal quale, verso la fine, Penteo sarà spodestato, e che diventerà la culla di Dioniso, il punto di vista favorito (il punto zero del corpo) dal quale il Dio (come il pubblico) può vedere e godere (come soffrire) dell’orribile spettacolo a cui Penteo si avvicina sempre di più, ignaro di non essere tanto egli colui che va tra i monti per guardare, quanto per essere visto.

Perché una poltrona da cinema? Nelle tante inquadrature di Kubrick in cui vediamo di spalle un uomo che lentamente si volta verso la telecamera (verso di noi), il regista ci sta invitando a voltarci noi stessi, per vedere la folgore luminosa che fuoriesce dalla cinepresa per attraversare il mondo degli uomini e diventare immagine (apollinea) sullo schermo. Kubrick c’invita a renderci conto che siamo (noi spettatori in primis) parte dello spettacolo. Nell’antica Grecia questo non era una novità: per il forte legame tra le tragedie e i culti religiosi, il pubblico ere al contempo spettatore ed attore, e gli attori veri e propri si sentivano soggetti ed osservatori di ciò che avveniva sul palco. Secondo una tradizione che va dalla ‘’Nascita della tragedia’’ di Nietzsche fino all’antropologia culturale (Robertson Smith, Malinowski, Marret, scuola ritualista di Oxford) la tragedia derivava dai riti dionisiaci che si basavano sul coro, infatti il termine ‘’tragedia’’ deriva dal greco Τραγῳδία (tragodia) cioè ‘’canto del capro’’ per via delle maschere caprine che indossavano i coreuti (usanza che si rifaceva ai sacrifici animali, quelli del capro espiatorio). Così, gli attori dell’antichità, inebriati da quei riti (che prendevano la forma dell’arte drammatica) divenivano satiri (si sentivano satiri) e come tali vedevano il Dio, Dioniso, fra loro su quel palco.

Ciò che infatti avveniva era la rottura del velo di maya (del principium individuationis), cioè dell’individualità, della soggettività, così che gli uomini entravano, prima di tutto, in una comunione totale fra di loro, entravano a far parte del Tutto, dell’Uno primordiale, in una partecipazione segreta con la natura.

‘’Quasi dovunque il nocciolo di tali feste consisteva in una enorme sfrenatezza sessuale, le cui ondate sommergevano ogni sentimento della famiglia e le sacre sue leggi: si scatenavano allora le più selvagge bestie della natura, fino a quel disgustoso miscuglio di lussuria e di atrocità‘’: è questa la descrizione nietzschiana delle Sacee di Babilonia, le feste di cinque giorni in cui i rapporti sociali s’invertivano, quelle iniziazioni orientali da cui deriverebbero i culti e i misteri di Dioniso su cui sarebbe stata edificata la tragedia ed il suo teatro, i luoghi dove l’uomo ricercava la comunione con il Tutto, per prendere consapevolmente posto nell’Uno Cosmico.

Il significato di Dioniso è tutto ciò che si sperimenta nella vita in quanto uomini: l’euforia, la paura, il piacere, il dolore, e soprattutto la musica; tutto riassumibile nel concetto di ‘’ebbrezza’’ (in tutte le sue sfumature ed interpretazioni). Sì, perché Dioniso è quel dio che ci ricorda che siamo umani, e che gli umani ‘’sentono’’, e sentono grazie al ‘’corpo’’, ciò che per loro è il ‘’perno del mondo’’ (Merleau-Ponty), ciò che collega l’uomo (coscienza) al mondo (natura), distruggendo l’opposizione tra soggetto e oggetto. Proprio per questo Dioniso cerca costantemente rifugio negli uomini: per il loro corpo; perché solo in un corpo umano, il ‘’Dio del corpo’’ può godere di sé stesso, e mostrare agli uomini tutta la potenza di un tale godimento (un godimento umano).

Penteo e Dioniso infondo, per la Hybris (tracotanza contro le istituzioni: l’uomo contro il Dio, e il Dio contro il governo dell’uomo) che s’impossessa di loro, si assomigliano più di quanto non sembri, e la storia delle baccanti può anche essere vista come la lotta di due Esseri speculari, o di un solo Essere contro se stesso. Penteo e Dioniso, nello scontrarsi, forse cercano una risposta su loro stessi (sulla loro ontologia), sulla loro identità: chi è Dio? Chi è uomo? Entrambi forse dalla vittoria non vincono che loro stessi. Ed in effetti la natura dell’odio di Dioniso nei confronti di Penteo (e dei tebani in generale) era dovuto alla mancanza di riconoscimento come divinità, figlio di Zeus; si diceva che la madre di Dioniso (Semele) fosse stata fulminata da Zeus proprio perché aveva mentito, raccontando di essersi accoppiata con Zeus. E d’altronde la motivazione dell’odio di Penteo nei confronti di Dioniso potrebbe derivare dal fatto che sono cugini, figli di due sorelle (Semele e Agave) e quindi il riconoscimento della divinità di Dioniso, minava l’autorità di Penteo (‘’se esistessero gli dei, come potrei sopportare di non essere dio!’’ scriveva Nietzsche). Ma solo uno dei due è destinato a vincere l’altro, anche se molti adulatori del culto dionisiaco consideravano la morte di Penteo (il sacrificio), un onore per pochi, una morte da Dio (tematica ripresa nella crocifissione cristiana). Del resto il destino di questo triste personaggio mitico era già inscritto nel suo nome, Penteo, dal greco πένθος ‘’sofferenza’’, definito da Euripide, ‘’l’uomo del dolore’’. Penteo però è il primo e unico eroe tragico che andando in pasto alla crudele sorte che gli spetta, oltre alla vita perde anche la dignità. Dioniso facendo leva sul dirompente desiderio di ‘’vedere’’ di Penteo lo spinge a travestirsi da donna e a nascondersi fra gli alberi del Monte Citerone, dove le baccanti danzano e vivono in una mistica comunione con la natura (saranno infatti i racconti sovrannaturali di un suo servo che ha spiato le baccanti, ad ingrandire in Penteo la voglia di vederle con i suoi stessi occhi), prima fra tutte sua madre, Agave (Cristina Donadio).

Non è ben chiaro quale sia il proposito morale di Euripide, se si tratti di un dramma religioso o anti-religioso, che inviti cioè a non far indispettire gli Dei o se ne descriva la loro stupidità troppo umana. Si dice che Penteo fosse di umili origini, un artista solitario, scontroso, sofista, misogino e ateo, e per queste ragioni uno dei bersagli preferiti della poesia comica.

Ci avrebbe potuto aiutare a comprendere, attraverso la differenza, il punto di vista su questa storia di un autore molto religioso come Eschilo, Sappiamo infatti che anche Eschilo scrisse una tragedia dal titolo ‘’Penteo’’ ma purtroppo questa andò perduta, insieme ai segreti che custodiva sul mondo greco.

Certo è che Penteo (come i grandi personaggi tragici: Odisseo, Edipo, Prometeo) solca un limite, sia oltraggiando il Dio della Tracia, sia avventurandosi sul Monte Citerone per spiare le baccanti, conoscendone i pericoli (impossessato dal desiderio di ‘’vedere’’). È per questo che ogni rappresentazione e interpretazione delle ‘’Baccanti’’ di Euripide deve in qualche modo connettere lo spettatore con quel senso del limite, che spaventa ed attrae all’unisono (l’uomo arcaico come l’uomo ‘’civilizzato’’).

L’uomo moderno ha tentato con molti mezzi di dare ulteriore risalto  a questa ambigua ed inquietante vicenda: Soyinka e Joffé fecero delle baccanti degli schiavi africani, Ronconi lo trasformò in un monologo e Castro fece di Penteo un ossessivo compulsivo con il bisogno di lavarsi continuamente le mani. Ma nonostante tutto ciò che risalta, a distanza di secoli, è sempre lo stesso impulso primitivo (al di là del bene e del male, del divino e dell’umano) di cui Euripide ha cercato di parlarci.

Estremamente interessante è stato il tentativo del regista Andrea De Rosa di trasformare il prologo iniziale di Dioniso in una rivelazione di un Dio  femminine (forse al di là dell’uomo e della donna) sulla terra (una ierogenesi) che parla per bocca degli uomini colti dall’euforia dei riti mistici in onore del Dio, in una profezia non declamata ma cantata, così da rendere il suo messaggio non un congegno chiarificatore (come forse lp aveva pensato Euripide influenzato dal socratismo), ma piuttosto un’allusione conturbante, che ci accompagnerà per tutto lo spettacolo.

L’innovazione del prologo fu infatti fortemente criticata da Nietzsche (nella sua veste di filologo più che di filosofo), in quanto questa spinta razionale (probabilmente inoculata dalle seduzioni del primo spettatore di Euripide: Socrate) del discorso iniziale (tenuto sempre da personaggi rispettabili e credibili, come appunto le divinità) aveva come intento quello di descrivere, prima del tempo, ciò che gli spettatori avrebbero visto sulla scena, spiegandone a tutti il senso; ma così facendo ne andava dell’elemento fondamentale della tragedia greca: la tensione dell’incertezza e della in-comprensione (che a guardar bene è proprio ciò che rende interessante la realtà umana).

Nell’antico teatro di Pompei venivano rappresentate solo commedie, ed anche se Pompei fu molto influenzata dai culti ellenici (lo dimostra lo stesso affresco di Penteo squartato dalle baccanti nella casa dei Vettii di Pompei), era una città romana, i quali proibirono i baccanali nel 186 a.C. per la loro violenza e la loro tracotanza nei confronti dell’ideologia e della fede ufficiale di Roma. In antichità ‘’Le baccanti’’ di Euripide non fu mai rappresentato a Pompei, ma ci piace pensare che tra quelle gradinate, nascosti sotto abiti patrizi, si potessero nascondere clandestini adoratori del Dio di tracia, le cui risate possono risuonare ancora oggi, innescate da quelle delle baccanti sul palco, che ci invitano a seguirle nel canto di Dioniso.

Lino Musella (interprete di Penteo) trovandosi, vestito come una baccante, davanti all’immenso muro di fumo che usciva dal parallelepipedo scenico, in sintonia con la partecipazione degli antichi coreuti, dev’essersi sentito (anche solo per un momento) spogliato della sua soggettività, e deve aver creduto (come noi tutti), che al di là del fumo, ci fosse il Monte Citerone, le baccanti, e Dioniso stesso, dietro le sembianze di un’incredibile Federica Rossellini, e seguendo la sua voce ‘’divina’’ deve aver fatto quel passo verso la sua straziante fine, come noi ci immaginiamo abbia fatto l’eroe tragico di questo mito. Questa è la prova di come questo spettacolo ci abbia dato un’idea (o meglio una sensazione) di cosa dovessero essere i culti dionisiaci e le rappresentazioni tragiche nell’antica Grecia.

Euripide ha scritto parole che risuonano ancora nei teatri delle civiltà cosiddette “moderne”, e a dispetto della lingua in cui le sue parole vengono tradotte, ancora oggi, ci sentiamo vicini a quel mondo d’incanti, attratti e respinti all’unisono, pronti a pagare con la vita, pur di sbirciare (anche solo per un attimo) le baccanti, e sognare (sempre per un attimo) di poter far parte di quella comunione segreta, con gli altri uomini, con la natura, con Dio, pronti a diventare la casa, per una sola notte, di Dioniso.

Questa sera (16 luglio 2017 ndr.) ci sarà l’ultima replica di questa sessione, e sarà (almeno per un po’) l’unica occasione di poter spiare, da una gradinata, i riti possessivi delle baccanti ammaliate dalla voce di Dioniso.


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