Il Racconto del Vajont di Marco Paolini

Il 9 ottobre 1963 è una data importante per l’Italia. Per quelli che ricordano, o per coloro che non hanno vissuto i momenti tragici ma che comunque vogliono, incuriositi, sapere cos’è successo, com’è successo.

Vajont Dam

Dalla diga del Vajont di proprietà prima dell’azienda idroelettrica SADE, poi dell’ENEL, un’onda di 250 metri balza fuori dalla muraglia di cemento e percorre la gola a una velocità di 80 Km/h. Difronte a se, una valle, una città, macché, non una sola. E sui monti, sopra il bacino artificiale, altrettante. Case di pietra e strade di asfalto. Dopo le 22:39 di quella notte, tutto è spazzato via in pochi e crudeli istanti. Quella realtà, la realtà di paese, quella dello sviluppo economico, ingegneristico, del benessere, tutto questo non esisterà più. La mattina seguente la valle è una massa di melma, fango, roccia, alberi, e su, in cima alla diga, l’acqua del lago è stata sostituita da 260 milioni di metri cubi di roccia. Il monte Toc, che in dialetto veneto e friulano significa “marcio”, diventa un buco a forma di M; uno squarcio, una frana a due gobbe, testimonianza, assieme alle tombe semivuote delle vittime, di quella tragedia.

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Tanti cimeli rimasti di quella notte. Tante le parole dei superstiti. Le foto dell’orrore a l’alba, quando vigili, militari, protezione civile e volontari si sparsero nella valle, o in ciò che rimaneva di essa. Fino ad oggi il ricordo non può essere cancellato. Come monito deve restare intaccato nella nostra mente. Testimonianze letterarie, come gli scritti della giornalista Merlin, o come quelli di un superstite, Mauro Corona, che è rimasto e vive a Erto, uno dei centri abitati coinvolti dalla furia della natura; ma anche molte e continue testimonianze filmate come le riprese sul posto o i documentari e film che ricostruiscono appositamente e in maniera fedele l’accaduto. “Vajont. Natale 1963” di Luigi Gianni, “Vajont” del 2001, diretto da Renzo Martinelli che, sulla scia del colossal “Titanic” di James Cameron, mescola alla verità una dose di romanticismo in forma romanzata. Sebbene un cast ricco di attori europei d’eccezione, come Leo Gullotta, Daniel Auteil, Michel Serrault o Laura Morante, l’opera di Martinelli resta un fiasco guardabile ma da non prendere troppo sul serio. Storico e affascinante, rimane invece lo spettacolo teatrale scritto e interpretato da Marco Paolini, uno dei maggiori esponenti del teatro italiano di denuncia; se così si può chiamare. “Il racconto del Vajont” fu scritto attorno al 1993 e più tardi, nel 97’, trasmesso dalla Rai e realizzato proprio sulle pendici del Toc. Più che un semplice spettacolo di due ore, è una lunga sequenza di parole che diventano immagini. Il monologo di Paolini è così carico e senza freni che ti trascina via, ti prende portandoti proprio all’interno della storia senza altri mezzi che la sola parola. Una recitazione talmente tagliente, talmente vera che dalla semplice cronaca dei fatti passa a un’ancor più fitta rete d’indizi, di particolarità che avvolgono tutta la vicenda. A volte ci s’imbatte in una sorta di fiction romanzesca, quasi epica, per poi finire sulla biografia, sull’autobiografia, e sulla realtà. La verità, all’interno di questo testo teatrale, subentra ed esce fuori dal passato più e più volte.

Paolini parte, infatti, da alcuni episodi di vita personale. Essendo del 1956, gli occhi del bambino che era sembrano dire molto di più. Il racconto delle vacanze, il treno che passava per Longarone, il viso della madre la mattina dopo la tragedia. In seguito, è l’ambito storico a prendere il sopravvento. Tutta la storia della valle del Vajont e dei suoi abitanti. Partendo da millenni prima, parla della rana preistorica insita nel Monte Toc. Non mancano di certo battute e piccole frasi umoristiche, giusto per mettere il pubblico un po’ a proprio agio. L’analisi della roccia, la sicurezza della frana, le visite del geologo Dal Piaz e dell’ingegner Carlo Semenza. Per quanto riguarda la messa in onda del 1997, è tanto sublime quanto doloroso seguire il racconto restandone completamente catturati fino a diventare tu stesso un superstite. Dal punto di vista narrativo, Paolini è un vero mostro, senza rivali. Le sue parole, specie in un racconto documentaristico come quello sul Vajont, travolgono come l’onda del 9 ottobre 63’. Entri anche tu nella storia e spoglio d’umanità quando mancano pochi minuti alla fine e si è già arrivati alla fase finale; le 22.39. La frana scivola nel lago, l’acqua esce dalla diga, e il resto è ormai storia. Un pezzo di storia italiana tanto pubblicizzata nel momento della costruzione della diga. “La più alta d’Europea! La più salda!” si vantavano ingegneri e architetti. In effetti, ella è rimasta intatta; eppure non era proprio quello il vero problema.

« Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. […] Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti. » (Marco Paolini, “Il racconto del Vajont”).

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