Dal 16 al 18 ottobre arriva in sala il grande progetto artistico che prende il nome di Loving Vincent, e cioè il primo film interamente dipinto su tela (utilizzando in parte la tecnica del rotoscope), con più di 65.000 fotogrammi e 125 artisti da tutto il mondo, firmato dai registi Dorota Kobiela e Hugh Welchman. L’universo descritto dalla continuità e dallo stile dei dipinti è quello dell’esistenza tormentata di uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, Vincent Van Gogh. Il Lungometraggio, grazie alla sua peculiarità, si è rivelato capace di trasportarci, come in una vorticosa discesa infinita (secondo l’espressione che Van Gogh stesso usò per descrivere la sua vita), nell’esistenza di quel pittore, che prima di essere pittore fu uomo, e il cui tragico nome fu Vincent.
Poco dopo l’enigmatica morte di Van Gogh, avvenuta nel 1890, il giovane Armand Roulin, figlio del postino Joseph Roulin (noto grazie al famoso dipinto di Van Gogh), viene mandato dal padre alla ricerca del fratello di Vincent, Theo, per potergli consegnare una lettera scritta da Vincent poco prima di morire. Armand scopre presto che Theo è morto solo sei mesi dopo l’amato Vincent. Ma decide di continuare il suo viaggio verso Auvers-sur-Oise, il villaggio vicino Parigi dove Van Gogh trascorse gli ultimi mesi. Cercando qualcuno a cui consegnare l’ultima lettera di Vincent, Armand si addentra nei misteri e nelle sofferenze che accompagnarono la vita e la morte del grande pittore olandese, trovandosi alla presenza di quei volti che Van Gogh stesso rese immortali con i tratti dei suoi pennelli.
Precipitato ormai addentro alle varie storie su Van Gogh, Armand raccoglie le testimonianze di tutti coloro (Adeline Ravoux, Paul Gauchet, Marguerite Gauchet..) che avendo sfiorato Vincent, ritengono di aver carpito un pezzettino della sua essenza; ma le loro verità (così pirandelliane) s’incrociano e si annullano a vicenda; così che alla fine del suo viaggio, il giovane Armand – fissando la bellezza delle stelle lucenti nello scuro cielo – dovrà fare i conti con la realtà, e cioè che non esiste – o non si può conoscere – altro Vincent Van Gogh che non quello dei suoi quadri.
Attraverso pennellate confuse ed emozionate, prospettive disarticolate, colori forti e colori cupi, si è cercato di restituire al meglio la parola dello sguardo di Van Gogh, perché se il senso dell’arte è la comunicazione, e la sua natura un linguaggio, lo stile di un artista è il suo dialetto: un dialetto che dobbiamo imparare a comprendere se volgiamo ascoltare ciò che l’artista ci dice, ed imparare a parlare se vogliamo dialogare con lui.
Attraverso dei Tratti nevrotici, che vanno e vengono, i vari artisti sono stati capaci di trasportare la pittura – che per sua natura è frammentaria – nella dimensione della continuità, ed in particolar modo in una continuità che non si dimostra artificiosa ma che invece restituisce il carattere dinamico di perturbamento che lo spettatore tipicamente percepisce davanti ad un quadro di Van Gogh, e che probabilmente segna la cifra dello sguardo che Vincent disponeva sul mondo.
Perché se è vero per tutti i pittori, quello che il filosofo Merleau-Ponty diceva di Cézanne, e cioè che ‘’è prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura’’, noi, oggi, grazie a ‘’Loving Vincent’’, possiamo avvicinarci quanto mai prima all’universo di Van Gogh, guardando il mondo e le sue cose esattamente così come – forse – le vedeva Vincent.
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