E arriviamo al penultimo tassello di questa rassegna. Quasi sicuramente quello di Philippe Leroy è un volto noto a quelle vecchie generazioni, incalliti amanti del personaggio salgariano di Sandokan. Tuttavia, anche per i più giovani che non ne conoscono il nome, il suo è uno sguardo inconfondibile, visto e rivisto dal cinema italiano più maturo e impegnato, a quello essenzialmente goliardico, di cappa e spada i rimaneggiamenti storici. Per molti è solo l’avventuroso Yanez; per altri, come per me, è un attore dalle tante sfaccettature, che del nostro cinema si è impregnato, dai gloriosi anni della commedia fino ad oggi.
Coetaneo dei più celebri Noiret, Piccoli e Trintignant, Philippe Leroy nasce a Parigi il 15 ottobre 1930 da una famiglia di modeste condizioni. Ciò lo spinse, a soli diciassette anni, a lasciare la patria per arruolarsi su un transatlantico con il ruolo di mozzo. Raggiunti gli Stati Uniti, vi rimase fino agli anni cinquanta, quando decise di tornare in Francia arruolandosi nell’esercito francese. Questo periodo fece accrescere in lui l’amore e le competenze per il paracadutismo, che da lavoro in Algeria e Indocina, si trasformò in un vero e proprio hobby durante tutta la sua esistenza. Siamo nel 1958, e Leroy, tornato a casa, inizia a interessarsi al teatro ma soprattutto al cinema; intorno agli anni sessanta sarà scelto per alcuni ruoli secondari, e anche più nascosti, che lo aiuteranno a prendere dimestichezza con quell’ambiente. A differenza di molti suoi colleghi, tre dei quali già citati, Philippe Leroy s’immerge sin da subito nella cultura italiana, dove emigrerà a causa di problemi legati alla politica. In Italia, nel periodo del boom cinematografico, è ben disposto, tramite piccoli ruoli alla volta, a contribuire allo sviluppo della settima arte. 7 uomini e “Il grande colpo dei 7 uomini d’oro” sono le primissime pellicole alle quali Leroy parteciperà. Un aspetto pulito, occhi penetranti, prestanza fisica accentuata dalla sua notevole altezza, sono caratteristiche che conteranno nelle pellicole successive. Oltre al personaggio di Yanez de Gomera, Leroy avrà il piacere e l’onore di lavorare con importanti registi dell’epoca; con Luigi Magni accetterà la parte di Sant’Ignazio di Loyola. Renato Castellani lo vorrà per il ruolo di Leonardo nello sceneggiato del 1971 “La vita di Leonardo Da Vinci”, Fernando di Leo per quello di Chino nel poliziesco “Milano Calibro 9” al fianco di Gastone Moschin e Mario Adorf.
Dagli anni ottanta si divise con produzioni non più solo italiane, sebbene ormai la sua casa era lo stivale. Richard Attenborough lo volle nel film “Amare per sempre”, prima grandi registi italiani lo avevano giù utilizzato come nel film “Il gatto” di Luigi Comencini. Tornò anche a lavorare più assiduamente per lavori francesi, come il film “Nikita” di Luc Besson. Klaus Maria Brandauer, Douglas Trumbll, Carlo Vanzina, Steno, Dario Argento, e persino Leonardo Pieraccioni di cui ci si ricorda la piccolissima ma divertente e profonda interpretazione del vecchio autista che racconta al protagonista la storia della sua vita. Quella parte, in realtà, era stata affidata, per volontà di Pieraccioni, a Vasco Rossi che aveva fatto un provino. Alcuni giorni prima delle riprese di quella scena, la rock star, non si sa perché, rifiutò.
Di recente ha collaborato con Elio Germano e Fabio de Luigi al film “Questione di Karma”, eppure non è una parte che vorrei sottolineare, spostando l’attenzione sul film di Renzo Martinelli “Vajont”, del 2001. Il film in se, sebbene cerchi di avvicinarsi al perfetto stile ed estetica del colossal hollywoodiano, non ottiene un buon successo. Il riconoscimento, quando non può andare alla storia e alla trama cinematografica romanzata, va agli attori. In questo frangente non si può dire nulla. Michel Serrault, che nella vita si comporta come un eterno e scanzonato burlone, qui è un rigido e serioso Carlo Semenza (ideatore e ingegnere capo della società S.A.D.E. che si occupò della costruzione della diga). Daniel Auteuil è invece il cinico e spietato Nino Alberico Biadene; Leo Gullotta l’ingegner Mario Pancini. In questo trio di attori arrivati e di successo, svetta la figura barbuta del personaggio del geologo Giorgio Dal Piaz, interpretato proprio da Philippe Leroy. Un ruolo questo che ho trovato sempre di una convinzione travolgente, sebbene la recitazione dell’attore sia scarna, semplificata al massimo, quasi invisibile a volte. Eppure Leroy è riuscito, secondo me, ha centrare il problema di quella tragedia. La consapevolezza di una tragedia imminente ma segreta per non perdere il progetto e i guadagni (sintetizzando con poco tutta la faccenda, sebbene molto più complessa e travagliata). Leroy smaschera quel terribile segreto attraverso gli occhi del vecchio geologo; ma con una naturalezza ed efficacia mostruosa, da rabbrividire se si pensa che la vicenda sia avvenuta veramente e sotto il controllo di uomini come Dal Piaz, Semenza o Biadene. La denuncia, ma più che altro la colpa, trasuda dalle rughe e dalla barba bianca di quel personaggio di contorno. Con questo pretesto, con il personaggio secondario del caratterista, Leroy ci ha fatto una carriera lunga un trentennio, senza cadere mai nel banale, nel ripetitivo o nello stereotipo.
Leroy chiude perciò un cerchio, iniziato sotto lo sguardo alla pierrot, un po’ triste e angosciato di Michel Piccoli, e proseguito con quello paffuto, drammatico e comico di Noiret e con quello da amatore romantico di Jean-Louis Trintignant. Eppure il cerchio non è chiuso del tutto, e augurandomi che, fin qui, la rassegna sia stata di vostro gradimento, vi aspetto alla prossima puntata con un altro grande e immenso, in tutti i sensi, mostro sacro del cinema francese ma in suolo puramente italico.
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