Si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla… o donna. E che si nasce anche personaggi!
Dal 15 ottobre al 12 novembre è andato in scena al Teatro Mercadante di Napoli Sei personaggi in cerca d’autore, il dramma che ‘’non ha atti né scene’’, quello che più rappresenta il teatro di Pirandello e l’angoscia di un’epoca che aveva appena varcato la soglia dell’inconscio freudiano.
Il regista Luca De Fusco dirige i sei personaggi facendoli entrare in scena come se uscissero da uno schermo proprio come gli attori nel ‘’Brodway Danny Rose’’ di Woody Allen. Con le loro seghettate esistente e tormentate vicende, essi c’invitano ‘’a farci le domande più importanti e terribili sulla natura, il significato, l’essenza stessa della nostra esistenza’’ (come spiega il regista napoletano nelle note di regia). Poiché ci ‘’raccontano una storia che non riesce ad essere tutta compresa nel solo linguaggio teatrale’’, il registra napoletano sceglie di percorrere la via di una moderna ‘’contaminazione tra teatro e video’’ (strada, d’altronde, già intrapresa in altri precedenti lavori), seguendo le ferree didascalie pirandelliane per tutto (luci, costumi…), tranne che per la scenografia, che qui tenta invece di restituire ‘’un clima più sobrio e crudele’’ rispetto a quello immaginato da Pirandello. Se però la scenografia scarnata risulta decisamente convincente nel contesto, il ruolo dei video proiettati sullo sfondo della scena appare poco sfruttato nelle sue immense possibilità, che avrebbero potuto concedere un nuovo primato di modernità ad un opera che, quasi cento anni fa, fu moderna ma in altro senso.
Nella prefazione all’edizione definitiva del dramma pubblicato nel 1933, Pirandello narra della genesi di quest’opera, unica nel suo genere, che ha catapultano il teatro nel fitto cuore del novecento: nell’universo partorito dall’autore siciliano solo il Padre (interpretato dal grande Eros Pagni) e la Figliastra (Gaia Aprea) sono pienamente consapevoli della loro essenza di personaggi, mentre altri sono solo tratteggiati (la Madre e il Figlio) ed alcuni soltanto vagamente concepiti tanto da non aver neppure parola propria (il Giovinetto e la Bambina); e ciò proprio perché questa improbabile famiglia avrebbe dovuto dar l’idea di esser stata appena abbozzata e subito abortita dalla mente di un autore che non aveva voluto allevare ciò che la Fantasia gli aveva donato.
In genere si è abituati a veder balzar vivi sul palcoscenico i personaggi creati da un’autore, ma Pirandello decide di seguire quest’idea fino alle sue estreme conseguenze, sconvolgendo completamente il mondo del teatro: perché da un lato ‘’la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere’’; e dall’altro La recitazione è un mestiere da pazzi, in quanto è ‘’far parer vero quello che non è; senza bisogno (…) per giuoco’’. Un assurdo paradosso che reca in sé tutto il bagliore fatuo ma incandescente della natura umana.
“L’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi’’ma soprattutto ‘’il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia, e la forma che la fissa, immutabile’’: questi sono i temi filosofici dell’opera, scritti di primo pugno da Pirandello stesso; il tutto portato il scena attraverso un approccio squisitamente meta-teatrale che ha rivoluzionato l’idea stessa di rappresentazione, buttando giù le barriere dello spazio teatrale ed innescando un gioco nello spazio, per lo spazi, dello spazio, sullo spazio, con lo spazio fino alle estreme conseguenze di un gioco contro lo spazio. Una distensione dell’uomo – sia esso attore, personaggio, od entrambi – nello spazio e quindi nel tempo della rappresentazione, rendendo indefiniti e indefinibili i confini tra spettatore ed attore, tra drammaturgo ed individuo, tra vita ed arte.
Se, infatti, da un lato l’intero spettacolo assume le sembianze di una critica all’intransigenza dei personaggi di trasformare la recita in vita (‘’il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo‘’ dice il Padre), dall’altro v’è anche una critica al capocomico (ben interpretato da Paolo Serra) e alla sua schiera di attori che vorrebbero ingenuamente racchiudere una tale smania di vita in banali forme riproducibili (‘’bisogna contener tutti in un quadro armonico e rappresentare quel che è rappresentabile!’’ dice il Capocomico). Sia in un verso che nell’altro, però, non ci sono ragioni o errori, ma solo i paradossi e le passioni che sul palco tengono in vita, per un paio d’ore a sera, gli individui e i loro punti di vista.
Se alla prima del 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma la rappresentazione dei ‘’Sei personaggi’’ scatenò una “lotta tra plaudenti e disapprovanti” , adesso –a quasi cent’anni di distanza – , nonostante sia ora chiarita la genialità dell’opera pirandelliana, risulta ancora forte il tormento e il dilemma profondo che questo dramma evoca negli spettatori che, sempre sbigottiti, si accalcano silenziosi per uscire dal teatro –con quel colpo di pistola che rimbomba in testa –, come interdetti dalla forza dello spirito di quei sei personaggi che bussarono alla porta della loro esistenza.
Insomma, finalmente, grazie al lavoro di De Fusco, possiamo vedere un bello spettacolo ri-attualizzato nel senso della tecnica (o meglio all’insegna della tecnologia) e non negli usi e nei costumi oppure nella dimensione temporale o significativa. Anche perché la struttura dei “Sei personaggi” è in grado, di per sé, di respingere ogni senso o significato che gli sia imposto da fuori, dall’esterno. Il genio pirandelliano di questo capolavoro sta proprio nell’aver dato vita (in tutti i sensi) ad un universo che si auto-sostiene, che si auto-definisce o auto-ri-definisce e che si auto-governa – insomma un universo auto-poietico.
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