The Insult è un film libanese del 2017. Diretto da Ziad Doueiri è stato premiato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia ed è in lizza per gli Oscar nella sezione Best Foreign Language Film (Miglior Film in Lingua Straniera).
Tutto parte, per l’appunto, da un insulto.
Una squadra di operai è al lavoro in uno dei quartieri cristiani di Beirut quando il direttore dei lavori Yasser Abdallah Salameh (Kamel El Basha), un rifugiato palestinese, ha una discussione con Tony Hanna (Adel Karam) sullo scolo delle acque del terrazzo di quest’ultimo. Yasser è responsabile della messa a norma delle abitazioni del quartiere per cui intervenie sullo scolo rendendolo a norma. Tony vede questo come un affronto e lo distrugge. Da qui lo scontro verbale con Yasser che infine lo insulta.
L’orgoglio di Tony è ferito e il responsabile del cantiere chiede a Yasser di scusarsi per le sue parole, in quanto la sua posizione lavorativa potrebbe essere messa in discussione. L’essere un profugo palestinese poi non aiuta: questi sono malvisti poiché abbassano il costo del lavoro. Per questo il cantiere, essendo patrocinato da un importante uomo politico non deve irritare la popolazione, insofferente ai profughi palestinesi. Yasser deve insomma chiedere scusa a Tony. Ne va del suo posto di lavoro. La domenica si dirige quindi, accompagnato dal responsabile, verso il garage dove Tony lavora come meccanico. Ma qui è Tony ad insultarlo proferendo delle parole troppo dolorose per chi è fuggito dalla Palestina.
“Sharon avrebbe dovuto sterminarvi tutti”
Yasser sbotta nuovamente e colpisce Tony. Due costole rotte. Ospedale. Denuncia. Processo.

Ma non finisce qui, perché da una banale lite come questa in tribunale si sovrappongono questioni più grandi. Questioni che riguardano la storia recente del Libano, il suo presente e quello che sarà il suo futuro.
Un film forte, con dei grandi interpreti che sono riusciti a trasmettere quel senso eterno di conflitto, rabbia, orgoglio ferito, pace impossibile, delusione e speranza spesso tradita, tipico del Medio Oriente.
Kamel El Basha è stato premiato a Venezia con la Coppa Volpi, per la sua interpretazione di Yasser. La sua è una storia comune da quelle parti. Prima erano palestinesi, ora siriani, ma i profughi continuano ad essere una parte consistente della popolazione libanese. E come accade qui in Europa, i profughi non sono molto ben visti dalla popolazione autoctona. Tutto il mondo è paese d’altronde.

Ma a complicare ancora di più la situazione non è solo l’essere profugo di Yasser. Lui è mussulmano, mentre Tony è cristiano. E quando Tony era bambino in Libano infuriava la guerra civile proprio tra cristiani e mussulmani, con questi supportati da milizie palestinesi. E la sua famiglia ne ha purtroppo sofferto. Come tutte le famiglie di civili in tutte le guerre etniche del secolo passato.
Quindici anni di guerra e 150 mila morti. Interi villaggi sterminati. Una pace raggiunta solo per il bene delle nazione. Tanto rancore che ancora cova sotto la cenere. E questo rancore è l’oggetto d’analisi di questo film. Basta poco per riaccendere la miccia dello scontro etnico. Bastano poche parole per risvegliare sentimenti sopiti da tempo.
Si deve essere responsabili delle proprie azioni. Questo è un concetto basilare nel mondo degli adulti. Ma si deve essere anche responsabili delle reazioni che le persone hanno quando si dice qualcosa? Bisogna preoccuparsi di non turbare nessuna sensibilità o c’è un limite di tolleranza? Chi lo stabilisce poi questo limite?
Le parole dette da Tony Hanna sono terribili. Siamo ai livelli di un’apologia di genocidio. Ma lo pensa davvero? O lo ha detto solo per la rabbia repressa che cova in lui da quando ha dovuto abbandonare il suo villaggio per sfuggire al massacro commesso dai miliziani palestinesi? E se così fosse, è giustificato? Sarebbe giustificato poi, anche Yasser? Oppure no? Dato che lui non si è limitato alle parole ma ha aggredito fisicamente Tony, procurandogli delle lesioni da referto medico.
Non c’è una risposta sicura a tutti questi interrogativi. Non può esserci quando si entra nella sfera della soggettività.
Non può esserci a così tanto dolore.
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