The shape of water (2017) è un film di Guillermo del Toro.
La romantica storia d’amore tra una ragazza muta e un mostro anfibio catturato dai servizi segreti americani sembra aver colpito nel profondo il grande pubblico europeo e quello d’oltre oceano. Il regista messicano, che vive nelle favole e per creare favole con una certa dose di politicità, come egli stesso le definisce, arriva al suo decimo film imbandendo una sublime storiella che ha al suo interno tutto; una dose di thriller poliziesco, una carica esplosiva da film spionistico e da action movie, le basi per una commedia dolce e innocua sull’amicizia e in più la tematica della diversità –ripresa da più punti di vista- unita dall’amore e da sentimenti puri, contro una società all’insegna della depurazione comunista, e anche capitalista, e della corsa nello spazio.
Come se il regista voglia dirci che una fiaba, benché moderna, ha comunque tanti elementi compositivi che la rappresentano; il mostro non è che un aggancio per qualcosa di più potente. Come avviene per molte delle sue opere precedenti, Del Toro si fa scudo di una fervida immaginazione fantastica per raccontare la bestialità dell’essere umano; ma se c’è ancora qualcuno che sa vedere in maniera diversa, nulla è perduto.
Nei toni freddi e piovosi della Baltimora degli anni sessanta, Elisa Esposito è una ragazza muta che lavora come donna delle pulizie in un ufficio governativo dove vengono fatti esperimenti da utilizzare contro i nemici russi. Vive un’esistenza calcolata e molto solitaria. Le uniche persone con le quali riesce a stare a suo agio sono Giles, il vicino di casa pittore e omosessuale, e poi Zelda, un’afroamericana che non fa altro che parlare del suo pigro marito. Elisa ha, inoltre, delle strane cicatrici ai lati del collo; sarebbero infatti le stesse ad avergli provocato il mutismo sin da bambina, e questo status di emarginata sociale che, tuttavia, non smorza la sua vivacità e la sua curiosità quasi infantile. Sarà proprio questo animo curioso a far si che entri in contatto con la strana creatura che gli scienziati tengono imprigionata nel laboratorio. Lo spietato colonnello Richard Strickland aveva infatti catturato tale mostro anfibio in Amazzonia e ora vuole usarlo come potenziale arma da guerra contro i sovietici. Nello stesso tempo, il dottor Hoffsteller (Michael Stuhlbarg), spacciatosi per un americano, è in realtà uno scienziato e spia russa di nome Dimitri e, al contrario di Strickland, vuole studiare la creatura senza che gli venga fatto alcun male. Elisa, dopo qualche attimo di paura, riesce ad avvicinarsi al mostro. Con il linguaggio dei segni se lo farà amico rendendosi conto della grande somiglianza che li lega. Quando Strickland e i suoi superiori decideranno di vivisezionare la creatura, Elisa escogita un piano per liberarlo, aiutata dallo stesso Hoffsteller, da Giles e da Zelda.
Un mix adrenalinico che parte con la quotidianità della protagonista femminile, interpretata da una splendida Sally Hawkins, passando per la programmatica vita dal suo appartamento fino al posto di lavoro, e poi a ritroso, insieme al vicino Giles (Richard Jenkins) e la compagna di lavoro Zelda (Octavia Spencer). Si arriva poi alla presentazione dei due corrispettivi opposti. Da una parte c’è il colonnello Strickland (Michael Shannon): uomo violento votato alla causa americana, patriota, razzista e maschilista, convinto, come spesso accade, di essere nel giusto e per questo non ci pensa due volte a seminare terrore fra i suoi sottoposti Tuttavia, la costante putrefazione delle sue due dita, strappategli dall’anfibio, simboleggia, forse, la fine degli uomini come lui e della civiltà nella quale si sente dio e padrone assoluto. Dall’altra parte, ciò che viene identificato come mostro -interpretato anche stavolta da Doug Jones– è in realtà una diversità che fa paura, ma che senza di quella non potremmo andare avanti, né immaginare un mondo migliore. Una sorta di bella e la bestia politicamente scorretto ma comunque elettrizzante che si modella sulla vita di persone comuni, spesso emarginate. Una ragazza muta, una nera disprezzata sul posto di lavoro così come in casa, un pittore allontanato per la sua omosessualità e infine una creatura ritenuta selvaggia e buona solo per esperimenti militari.
Come spiega lo stesso regista, da persone comuni si può arrivare a dare un messaggio politico alto e potente. Se nella società concreta delle fabbriche, della nuova tecnologia, delle armi e delle Cadillac extra lusso si è persa l’uguaglianza fra gli uomini, solo nell’acqua è possibile ritrovare uno sprazzo d’amore, di connessione con altri individui ed esseri; l’acqua, non avendo forma, permette di prendere e distruggere ogni cosa, salvandone di altre.
Così come avvenne per altre sue opere, in particolar modo ne “Il labirinto del fauno”, Guillermo Del Toro usa l’immaginazione, specie quella più fanciullesca e innocua legata agli occhi di un bambino o di una persona pura, per descrivere momenti atroci commessi dall’uomo durante il corso del tempo. Se in “Il labirinto del fauno” è la guerra civile spagnola a incorniciare gli eventi di Ofelia e di sua madre, in quest’ultimo film è la guerra fredda a muovere i personaggi; chi contro chi a favore di essa. Per questo, quando non si può combattere il male con le armi, c’è pur sempre il ricorso al potere della fantasia, dell’immaginazione. Con essa, a differenza della mera realtà, tutto è possibile e inimitabile; Del Toro è visibilmente e poeticamente votato alla seconda causa. E chi non lo sarebbe?
Sebbene il regista sia stato denunciato per plagio, egli spiega come l’idea di creare una sorta di remake de “Il mostro della palude nera” lo avesse sempre incantato. Così Del Toro vola spensierato verso Hollywood nella speranza di un ulteriore riconoscimento. Riconoscimento che già a Venezia aveva avuto la possibilità di dedicare a tutti i giovani cineasti messicani e latinoamericani che, come lui, vogliono specializzarsi nel genere fantastico. Mettendo in ballo la sua stessa esperienza, egli si descrive come un cinquantenne di 200 chili che ha girato una decina di film e non smette mai di sognare e vivere per ciò che più gli piace fare. “Yes, it can be possible”, “si, è possibile” dice, affermando infine che solo attraverso il sogno è possibile estrapolare materiale fresco e potente dalla propria mente. Questa frase potrebbe uscire direttamente da una delle sue pellicole, se non direttamente da quest’ultima. “The Shape of Water” è, per il momento, l’opera più matura di Del Toro, che potrebbe aprire la seconda parte della sua nuova filmografia.
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