di Lorenzo Borzuola
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In sintesi, ci volle un po’ per abituarmici. Mettermi bene in testa che non ero più in Italia. In Germania o lavoravi o non riuscivi a tirare avanti. Mi misi nella concezione di non dover pensare ad altro che a lavorare, spezzarmi la schiena come un mulo, come un vero tedesco. In due lunghi anni che mi attesero nel freddo teutonico, avevo cambiato già tre lavori; all’inizio lavapiatti in un ristorante napoletano, poi cameriere e infine cuoco in un finto ristorante italiano gestito da persone che d’italiano non avevano niente, se non la solita idea confusa delle tovaglie a quadri bianchi e rossi e il fiasco di vino con il sotto in vimine. Era comunque divertente lavorare li. Non amavo molto lavorare con gente di nazionalità sempre diversa ma ci facevo l’abitudine. La cosa bella era vedere i tedeschi, sempre precisi e instancabili durante il proprio lavoro, trasformarsi in confusi individui quando smettevano di lavorare e venivano a rifocillarsi. Un amico mio, italiano anche lui ma più evidente, addetto alla preparazione delle salse, aveva una personale idea di un tedesco. Un tedesco, diceva, era come un cavallo, come un grosso mulo con grandi paraocchi neri. Tu dagli un compito da svolgere e lui non solo te lo svolge perfettamente, ma è anche veloce quindi in un solo giorno può sbrigare più di una sola faccenda, con il risultato di un lavoro ben fatto. Tolti i paraocchi, però, non aveva idea di quello che doveva fare, la sua stabilità si perdeva in sciocchezze e strani atteggiamenti. Ci campavo sulle teorie di Alfonso, mi faceva passare le ore lavorative e anche quelle successive, quando finivo il turno a mezzanotte e potevo finalmente affondare le labbra su di un bel calice ghiacciato di birra.
Insomma, mi ero sistemato bene. Ero partito come un classico emigrante italiano; un bamboccio timido e spaventato dall’esterno, mammone e inesperto, arrivando in un solo anno a parlare discretamente tedesco. Gli ultimi lembi di pelle peninsulare abbandonarono il mio corpo già allo scoccare del secondo anno. Molta gente aveva bisogno di più tempo, altri non cambiavano per niente, anche se vivevano lì da vent’anni. Non avevano preso niente dal popolo ospitante. Lì riconoscevi da un chilometro che erano italiani, spagnoli o chissà di quale altra nazionalità. Se la portavano appresso la puzza della loro vita passata.Io invece mi ero integrato bene e in così poco tempo. La mia fortuna fu anche quella di essere nato biondo; se fossi stato più robusto,potevo spacciarmi in tutto e per tutto da vero teutonico. Il lavoro e la mia innata voglia di lavorare riservarono un posto nella nuova società dove potevo sguazzare libero, sicuro, e nessuno avrebbe mai saputo che ero italiano. Ero integrato.Avevo un piccolo monolocale ma tutto per me, arredato, in parte, con vecchi mobili del mio precedente datore di lavoro e alcuni appartenuti a due donne che vivevano lì prima di me. Dicono fossero due puttane, ma io non ci facevo caso, anche perché, dopo il lavoro, l’unico modo che avevo per corteggiare una donna era spingermi poco più a sud del mio appartamento, suonare a un palazzo scuro, salire la prima rampa di scale ed entrare nel primo appartamento sulla sinistra dove ad aspettare i clienti, era sempre la solita vecchia matrona bavarese che cianciava e pubblicizzava la merce. Bastava allungare un cinquantino per un po’ di divertimento. Lì per forza dovevo andare; e chi aveva il tempo per un vero e rispettoso corteggiamento? Persino la mia sessualità era stata inglobata e integrata al meglio. L’unica cosa era il clima ballerino che non mi aveva fatto del tutto abituare. E proprio quella sera restai in cucina con la finestra spalancata per mandare via il fumo, tremante e raffreddato. Era tardi, quasi le quattro e ancora non era arrivato. Mi era scolato già quattro birre e fumato almeno dieci sigarette nell’attesa di mio cugino. Fu un’idea di mia madre quella di far venire su Marco e farlo alloggiare a casa mia. Lui studiava in Italia e aveva cercato disperatamente un modo per passare almeno pochi giorni all’estero, prima di tornare sui libri. Sapevo che sarebbe voluto venire ma non mi feci avanti, non dissi niente al riguardo. Fu mia madre che, parlando con mia zia di questo, aveva già preparato tutto e detto a Marco che poteva alloggiare da me, non mi avrebbe dato fastidio. “Santa donna” pensai, non potendo dire altro. Per forza di cose ero stato costretto a dover dire di sì, aprire il divano letto in salotto e aspettare il suo arrivo. Erano già due ore che aspettavo ma di lui non c’era traccia. Ero sbronzo, affaticato dopo tutto il giorno passato davanti ai fornelli e non avevo la forza nemmeno per chiamarlo o almeno per maledirlo. Volevo bene a Marco ma solo come un cugino; non avevamo mai legato molto e se devo essere sincero, non gli avrei mai offerto di venire su. Era un’altra di quelle situazioni fra parenti che, nel bene o nel male, dovevi accettare. Tuttavia quell’attesa inesorabile mi metteva sotto pressione Già meditavo di rispedirlo a calci in Italia per il tempo sprecato, che avrei potuto utilizzare in maniera molto più soddisfacente, magari dormendo visto che il giorno dopo mi aspettava il turno delle otto. Decisi che se non fosse arrivato entro dieci minuti me ne sarei andato a letto, fregandomene altamente. Per fortuna sua, Marco arrivò quando mancava ormai un minuto perché fosse finito il tempo prestabilito. Aprii la porta e lui mi venne incontro aprendo le braccia e cercando di abbracciarmi. Mi scostai prima che potesse raggiungermi e lo salutai un po’ freddo, stanco morto e con la bocca impastata di birra; un’abitudine questa che non intendevo debellare dalla mia quotidianità. “Il bagno è la,qui c’è la cucina e di qua il tuo letto. Domattina mi sveglio presto quindi non posso soffermarmi un minuto di più. Se vuoi mangiare in frigorifero ci sono delle patate e un pezzo di salame. Buonanotte”. Questo è tutto ciò che gli dissi e Marco restò immobile sul ciglio della porta ancora con le valigie in mano. Entrò solo pochi secondi più tardi, quando ero già in bagno cercando di mandare via quella pesantezza di stomaco accumulata con l’alcol e con un pasto insano. “Pensavo che mi avresti fatto da Cicerone domani. Sai, una visita per la città!” disse Marco, cercando di smorzare quella tensione venutasi a creare.“Bè, vedi io lavoro Marco. Non sono mica in vacanza. Se ho un po’ di tempo dopo il lavoro, possiamo vederci ma non ti assicuro niente”.“Va bene”, disse lui freddamente. “Colonia è una bella città, vedrai che ti troverai bene anche senza di me!” continuai, e non fece in tempo a dirmi nient’altro che già lo avevo risalutato e mi ero rifugiato in camera mia. Avrei potuto essere più gentile con lui, farlo sentire al sicuro come a casa, con una persona amica, ma non lo feci. A questo ripensai solo il giorno seguente quando mi alzai alle sette per preparare una tazza di caffè. Povero Marco, non lo avevo accolto con tutta l’ospitalità che si meritava, e ora nemmeno dormire in pace poteva, con me che camminavo su e giù per tutta la stanza nell’intento di prepararmi, facendo cadere scarpe, sbattendo contro i mobili. Un rutto risuonò per tutto l’appartamento e Marco si svegliò. Un rutto che sapeva ancora di birra mista a salame e ora anche caffè, ma non ci badai. Prima di uscire mi accesi una sigaretta e dissi a Marco che molto probabilmente non saremo potuti stare insieme nemmeno quella sera perché avevo un impegno. Una menzogna che architettai mentre il caffè veniva su ed io preparavo la tazza mettendo un cucchiaio di zucchero sul fondo. Forse ero io a essere geneticamente stronzo,e Marco continuava a non dire niente, si limitò ad annuire con la testa. Il fatto è che non so per quale strano motivo non avevo voglia di starmene con lui. Se solo avessi provato a essere più gentile; macché. Il lavoro era il mio obiettivo primario e dopo aver finito il turno, l’appartamento era l’unica cosa alla quale pensavo. Se avessi trovato Marco al mio ritorno bene sennò affari suoi, era abbastanza cresciutello da badare a se stesso. Non potevo mica pensare a divertirmi.Chiusi il portone e mi avviai verso la fermata di Clodwigh Platz.
[continua]
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