L’integrato – La manifestazione

[segue]

Una folla di strani ceffividi comparire subito dopo aver svoltato l’angolo. Kabir, detto Ernst, il vecchio proprietario del Kiosk dove andavo a rifornirmi, si era barricato letteralmente dentro il suo stesso negozio. Gli chiesi di farmi entrare prima che quella massa di persone mi avesse investito. Fece soltanto di no con la mano e mi chiuse le persiane in faccia. Non capì subito cosa stesse per succedere. Riuscì a evitarli e a proseguire verso le rotaie facendomi largo tra le altre persone, uomini, donne, vecchie, bambini, cani, che disperatamente cercavano riparo e nello stesso tempo volevano vedere curiosi come tanti animali. Io lo ero un po’ meno. Erano già le sette e trenta minuti, mi mancava solo mezz’ora per raggiungere il ristorante in tempo. Allungai il passo, ero già bagnato dal sudore, ma il tempo era talmente breve che dovetti allineare tutta la mia concentrazione per arrivare puntuale; non un minuto di più né uno di meno, era sempre stato così. Da questo punto di vista, intendo di mezzi, ritardi o manifestazioni, l’Italia non mi mancava affatto, ma due anni a fare su e giù, su e giù in continuazione per quella strada e sopra quelle rotaie,mi avevano fatto dimenticare che anche in Germania esistevano problemi del genere. Mi ero appena avvicinato alla fermata quando alcuni di quei manifestanti, non sapevo nemmeno di cosa, decisero di dividere in tre grossi gruppi il corteo, e una di quelle tre colonne di uomini dalle voci stridenti e con i cartelli in mano, mi venne addosso bloccandomi in mezzo a loro e trasportandomi cinquanta metri più distante dal punto prescelto. Se mi fossi spinto solo tre isolati più avanti, vicino alla fermata di Barbarossa Platz, avrei risparmiato la fatica di farmi largo con tutta la forza che avevo tra la folla per raggiungere il tram. Riuscì a scamparla spingendo furiosamente e infischiandomene altamente della loro protesta; io dovevo lavorare e mi restavano a malapena sedici minuti per giungere in tempo. Sulla banchina, rifugiatomi assieme a quelli che come me andavano al lavoro, aspettai il treno metropolitano in superfice che arrivava verso di noi con sospetta lentezza. Guardai l’orologio del cellulare. “Ho ancora tredici minuti!” pensavo ansimando. Dovevo mantenere la calma, nervi saldi. Insomma, mi giravo e tutti quelli intorno a me non sembravano essere preoccupati minimamente. Erano tedeschi, non si scomponevano facilmente ed io ora ero uno di loro. Dovevo tenere la testa alta e scacciare lontano quello stato di ansia che stava pervadendo il mio corpo ancora assonnato e a tratti infreddolito. Quando uno dei vagoni centrali arrivò alla nostra altezza, le porte si aprirono faticosamente, rallentate dalla pressione delle altre persone che invadevano il mezzo. Entrai. Altre dieci persone entrarono dopo di me spingendomi la faccia contro la schiena di un energumeno che a malapena si reggeva in piedi, incastrato e impedito come quegli altri. L’unica cosa che rimaneva era la calma dei passeggeri; io ero rimasto tranquillo ma sempre sull’orlo di una costante impazienza. Il tram mosse i suoi primi passi sfregando le ruote lungo i binari. La vista del mondo circostante, che si muoveva perpendicolarmente a me, risollevava il mio spirito. Sarei arrivato in tempo. Ecco il tram curvare all’improvviso, prendendo la linea di binari sbagliata che tornava verso Clodwigh Platz. Un’altra colonna di manifestanti, ora più rabbiosi, si era messa in mezzo alla tratta; lo avevano circondato come fosse un fortino e uniti battevano con insistenza i pugni e i cartelli sullo strato superficiale di lamiera. Reclamavano ed inveivano. Non vi nascondo che ebbi paura, ma più di quello, un odio aveva smorzato, alla fine, i restanti residui della mia placidità. “GehenSiewegSchweine! GehenSiewegSchweine!” iniziai a gridare, sporgendo la testa fuori dal finestrino. “UNZIVILISIERT! UNZIVILISIERT!” la voce mi usciva fuori con tutta la forza che avevo. In quell’istante avevo dimenticato di essere in un mezzo pubblico. “EKELHAFT! GehenwoandersIdioten! EKELHAFT! EKELHAFT! EKELHAFT! EKELHAFT!”

All’improvviso, un silenzio aveva assalito me e il convoglio. Tutto intorno, decine di sguardi sorpresi che guardavano proprio verso di me; occhi stupiti e scostanti nello stesso momento. L’immagine di un calmo cittadino si era tramutata in quella di un ambiguo individuo urlante. Dai volti dei passeggeri, in piedi o seduti, s’intuiva la confusione che quel mio fragoroso gridare aveva provocato. Il silenzio assordante aveva causato in me un tale imbarazzo che non seppi dire niente. Un uomo scosse tre volte la testa guardando in basso; forse l’unico ad aver capito che non ero di quelle parti, e rimasi a guardarlo implorando dentro di me che dicesse qualcosa, qualunque cosa purché facesse distogliere altrove tuttequelle facce interrogative e imbarazzate. Mi voltai. Non feci altro che voltarmi ammutolito e colpevole per quel gesto inconsueto; appiccicato all’asta di ferro, rimasi fino a quando le porte non si aprirono e l’aria fresca, mista a un odore pesante di erba bruciata e smog, non entrò tra quegli spazi stretti permettendomi di respirare profondamente e uscire di corsa. Fui costretto a scendere anche perché il mezzo non poteva più andare avanti. La folla aveva bloccato la via e tutte le altre strade erano bloccate, costipate di auto rombanti e di uomini. Non mi rimase altro da fare che andare a piedi. Levai la giacca e la riposi di corsa nello zaino e abbandonai i binari liberandomi dai passeggeri del mio stesso tram che non cessavano di guardarmi senza però proferire parola. Infilai il mio corpo stanco e provato ancora una volta tra i manifestanti. Non dovetti faticare più di tanto, il corteo sembrava andare nella mia stessa direzione e come un fiume di carne e scarpe mi lasciai trasportare al di fuori dell’antica torre romana, lunga la strada più vecchia di Colonia che portava davanti alla Dom Platz, la piazza del Duomo. Riuscì a liberarmi solo all’altezza del ponte che dominava la super strada. Una corsa senza fine scandita dal mio continuo ansimare e dal rumore della gomma sotto le scarpe che per tutto il viaggio non facevano che restringersi e i piedi erano intrappolati in una morsa dolente che mi accompagnò fino all’entrata del ristorante. Avevo sforato di mezz’ora l’ora prestabilita, perché una volta arrivato alla piazza della cattedrale fui costretto a girare a destra e oltrepassare tutto il corso fino Neumarkt e oltre, arrivando a Rudolf Platz senza più fiato né vestiti asciutti. L’intero mio corpo era ricoperto di sudore.

“Perché ci hai messo tanto?” domandò immediatamente il mio capo; Esteban si chiamava, un omone di due metri che veniva dal Sudamerica. Nel momento in cui mi vestivo, cercavo di prendere tempo spiegandogli tra un bottone e l’altro il grande imprevisto che mi era capitato. Non mi credette. Più cercavo di spiegargli i fatti e più mi trattava come una pezza da piede, difronte ai miei colleghi che già si erano messi a lavorare. Alfonso mi afferrò per un braccio accompagnandomi verso la mia postazione, ma quel bastardo di Esteban non la finiva di maltrattarmi. All’ennesima ripresa non so cosa mi prese realmente; ricordo una fitta lacerante prendermi su tutta la testa e le mie mani non erano state mai rigide e nervose come in quel momento. Mi tolsi la cuffia rossa che mi copriva il capo ed evitava che i capelli si mischiassero con le pietanze. Mi avvicinai a Esteban che nel frattempo riprendeva fiato tra una predica e l’altra. “Rimettiti la cuffia e torna al tuo posto. È un ordine. Obbedisci!”. Risi un secondo, un riso amaro e svelto sul mio viso. “Non permetto di essere trattato in questo modo. Non è colpa mia se ho fatto ritardo.Non mi merito tutta quest’aggressività!”. “Te lo dico io cosa ti meriti e cosa non ti meriti. Sono io che comando quando lavori qui dentro” aggiunse. “Se continui a perdere tempo oggi non sarai pagato e ti faccio restare fino all’ora di chiusura. Intesi?”. Non mi pareva il caso dire altro. Più onesto di quel modo Esteban non poteva essere, e volli essere con lui altrettanto franco. Mi slacciai il grembiule immacolato, lo lasciai cadere sopra uno dei tavoli vuoti non molto distanti da dov’eravamo e feci, “Se è così, allora non lavoro oggi. Prendo un giorno di riposo!” e uscii lasciandomi alle spalle lui e il suo grugno spietato che iniziò nuovamente a far muovere come fosse una maschera; un pupazzo che viveva di vita propria, andando avanti in incessanti accuse e sproloqui di ogni genere. Alfonso mi fermò quando ero ormai fuori, pregandomi di tornare e di mettermi al lavoro. Ero a pezzi. Tutta la mia integrità fino a quel momento raggiunta, stava crollando ed io sentivo che qualcosa in me mancava. La sola idea di rimettermi a faticare come un animale germanico mi confondeva le idee, mi turbava e mi faceva stare più male di quanto già non lo fossi stato. Lo salutai in silenzio, mettendogli una mano sulla spalla dicendogli solo, prima di incamminarmi, che sarei tornato al ristorante domani.

[continua]


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