L’integrato – Il sogno

[segue]

Uscii fuori da quel posto intorno alle due del pomeriggio. Ero rintronato da quell’abbuffata, un po’ alticcio per via della birra e del vino. Barcollai con l’ultimo sprazzo di equilibrio e lucidità rimasti verso il Reno. Le loro parole risuonavano nella mia scatola cranica come un lungo ed eterno monito. Arrivato al fiume, mi distesi sopra il prato caldo. Mi addormentai, e appena la mia testa fu coccolata dall’erba e dal rumore della corrente, ricordo di aver fatto uno strano sogno, che tutt’ora porto stampato nella mia mente, così lucido e vivido.

Ero nel mio monolocale. I mobili, che prima erano al loro posto, ora non c’erano più; spariti completamente. Solo i muri banchi e spogli erano rimasti, assieme al piccolo specchio nel bagno. Dove prima c’era il parquet ora solo una lastra grigia di cemento sgusciava sotto di me. Nudo. Ero nudo come un verme ma alcuni dettagli che riuscivo a sentire con la mano mi facevano intuire che c’era qualcosa di diverso in me. La schiena era contorta, curva e ricoperta da una corazza di pastella fritta, dura e spigolosa, gialla e con un forte odore di uova e farina. Non potevo districarmi da quello scudo; era inchiodato dal fondoschiena fino al collo e ora era parte di me. Persino i piedi palmati, o meglio, solo uno il sinistro, era palmato, quell’altro aveva la forma di un grosso piede di porco, una zampa unta di maiale. Mi reggevo, però, con sorprendente equilibrio sebbene i miei peli, che ricordavano tanto degli spaghetti, pendessero dalle gambe rilasciando uno strano fluido melmoso e rosso. Cercai di strappare quella bizzarra peluria a mani nude ma solo la sinistra poteva lavorare, l’altra mano non l’avevo. Era un tutt’uno con l’osso del braccio e terminava a punta, proprio come l’ala di un pollo, senza piume e incapace di lavorare. Corsi nel bagno, e mi misidinanzi allo specchio. Il viso era normale, forse un po’ più pallido del solito ma non c’era di cui preoccuparsi. Niente sulle orecchie o sul collo, poi la mia attenzione si posò su di un piccolo taglio lungo lo sterno. Sembrava un misero graffietto prima di accorgermi che alla fine di quel solco, una cucitura fatta con un filo di spago teneva insieme due lembi di pelle giallognola.  Con la mano buona sciolsi il nodo che univa le carni; questo venne via con estrema facilità passando per tutta la cassa toracica e fin sotto lo stomaco provocando un sottile riverbero; un solletico che mi scosse in un primo momento. Guardai il mio corpo. Non ci avevo fatto caso prima; il taglio, che pareva minuscolo, era più lungo di quanto pensassi e finiva poco prima di arrivare al pube. Un istante più tardi avevo uno strano sapore di sangue in bocca e infilandoci un dito dentro presi un qualcosa che mi si era incastrato in gola. Sembrava una pianta, una fogliolina verde che emanava un forte aroma. Un altro pezzo di quella strana pianta vidi uscire dal taglietto sullo sterno, dal quale prima avevo sfilato il filo di spago. Stranamente avevo con me anche l’altra mano ora, e facendo forza con tutte e due le mani presi le due clavicole. Assieme a tutto il torace e alla pancia si aprirono come ante di un armadio. Al posto degli organi qualsiasi genere di pietanza riempiva il mio corpo martoriato. Una salsiccia tumefatta, pronta per la decomposizione, si era adagiata in fondo, dove prima sentivo muoversi solo intestino e fegato. Un panino bianco, grondante salsa, era rimasto impigliato tra due costole mentre una scia rossa di spaghetti ricopriva il tutto insinuandosi nei posti più strani e nascosti come fossero vivi ed energici, rapidi nel loro lavoro. Un trancio di pizza volteggiava in mezzo a tutto questo; l’olio da essa cadeva gocciolando sopra le vive carni, e i muscoli e le ossa. Tolsi con una mano un pezzo di prosciutto che ostruiva la mia visuale. Lì, dove doveva esserci il mio cuore, una mela occupava il suo posto e un baco bianco, con la testa nera, bucava più volte la superfice verde di quel frutto e dentro s’infilava mostrando di tanto in tanto il suo muso estasiato e godurioso. Ebbi l’impulso di gettare in dietro il collo e tutta la testa. Uno di quegli spaghetti riprendeva il suo tragitto e s’infilava nuovamente nella mia gola. Non feci in tempo a fermarlo; facevo forza con i denti e la lingua per non farlo uscire ma questo trovò un nuovo passaggio tramite la cavità nasale e dopo che fu passato, altri suoi stessi esemplari lo seguirono. La mandibola cedette e uscirono tutti fuori dalla bocca lasciandomi lentamente sempre meno aria per respirare. Mi sentivo svenire vedendo la luce della lampada offuscarsi difronte ai miei occhi increduli e impotenti.

Mi svegliai di colpo. Ero ancora sul prato. Toccandomi la pancia con entrambe le braccia restai seduto alcuni minuti per rendermi conto che stavo sognando. Era stato solo un incubo eppure la mia mente comandava i miei muscoli e tutto il corpo; non ero tranquillo, non lo ero. Ripensai alle parole della taverna; mi avevano in un certo senso confortato ma la mia agitazione e il mio stato di ansia non mi permettevano di respirare correttamente. Guardai l’ora sul cellulare. Si erano già fatte le cinque. Avevo dormito per quasi tre ore sopra quel manto verde non curante dello sguardo dei passanti o di ciò che potevano pensare, neppure quando iniziai una lunga serie di sbadigli roboanti e anche fastidiosi. Successivamente mi distesi nuovamente accusando un ulteriore colpo di sonno improvviso. Un altro. Pareva mi fossi riposato abbastanza e invece il sogno non aveva fatto altro che affaticarmi sempre di più. Non potevo però perdere atro tempo. Mi alzai dopo qualche decina di minuti. Mancava qualcosa, ne ero sicuro. Mancava ancora qualcosa nella mia vita.

[continua]


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