Manuel, del regista Dario Albertini, è la storia di un ragazzo che deve trovare la sua strada.
Manuel è un ragazzo diciottenne che ha passato gli ultimi anni della sua vita in un istituto per minori. Non avendo nessuna famiglia o parente fuori ad accoglierlo, sarà lui a darsi da fare per permettere a sua madre di ottenere gli arresti domiciliari, sotto la sua responsabilità, una volta uscito dall’istituto.
La storia di Manuel è tanto particolare quanto universale. La prova che lo attende, una volta fuori nel mondo reale, lo spaventa. Si tratta di molto di più che un semplice ritorno alla libertà. Anzi, forse è il contrario. Manuel deve farsi carico dei domiciliari della madre. Dovrà abdicare alla sua libertà, ed essere prigioniero della pena della madre. La strada che intraprende è ripida e claustrofobica. Avere diciotto anni e una responsabilità penale così importante non è sicuramente facile da gestire.
Così vediamo Manuel combattuto tra l’amore per la madre, e questo suo desiderio di libertà costantemente represso dal suo senso di responsabilità. È una lotta che accomuna tutti i giovani. Una lotta che vede il desiderio di iniziare a prendersi le proprie responsabilità contrastato dalla paura di non riuscire a reggerne il peso. È quello che succede quando si lasciano la sicurezza della famiglia e ci si getta nel turbinio della vita da adulti.
È la storia di tutti i giovani. Ad un certo punto bisogna togliere le rotelline dalla bicicletta e pedalare se non si vuole finire per terra. Non è per niente facile. All’inizio non si riesce a mantenere una direzione che sia diritta. Ogni giro di pedali si teme di cadere e sbucciarsi le ginocchia. Sembra impossibile, ma poi ci si riesce.
Ma quello che si prova in quel momento a volte può essere paralizzante. E bisogna riprovare e riprovare. Rimanere spesso delusi e demotivati. Ma bisogna provarci.
Non so quanto questa riflessione appartenga alla spirito del regista Dario Albertini, che in un’intervista a Fotogrammi-Radio Statale ha parlato delle origini del film: “Il film parte da una sguardo particolare che si è allargato mano a mano. Il film nasce da un documentario sulla strutturato in cui Manuel è ospite all’inizio. C’è un vero Manuel di cui ho seguito l’uscita da quella struttura per il documentario, e ho scoperto la violenza che c’è in questa uscita [1].”
Una violenza a cui non tutti riescono ad essere preparati.
Crescere spaventa. Lo provo sulla mia pelle. Lo vede negli occhi dei miei coetanei. Lo sento nelle loro parole e lo percepisco dalle loro azioni. È un salto nel buio, che però va fatto.
Una volta usciti dalla propria confort-zone, che sia l’istituto, la scuola o l’università, là fuori c’è un mondo duro, spesso ostile e disturbante, ma allo stesso tempo pieno di opportunità e persone meravigliose.
La regia di Albertini conferisce una grande veridicità al racconto. L’influenza documentaristica si percepisce nella telecamera che segue l’azione in lunghi piani-sequenza e nel parsimonioso uso della colonna sonora. Sono molte le scene in cui Manuel è immerso nel rumoroso silenzio della realtà. L’effetto è immersivo. Si entra nella sua realtà senza disturbalo, ma venendone totalmente avvolti.
Il merito è anche dell’interprete di Manuel, Andrea Lattanzi, capace di fare suoi i desideri e le inquietudini di un ragazzo che, nonostante lo tema, ripone molta speranza nel futuro.
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