A soli 25 anni Steven Spielberg dirige il suo primo lungometraggio, da tutti conosciuto, Duel. Nato come film per la televisione, furono poi aggiunte delle scene portandolo alla durata di novanta minuti. Da ciò nacque un’opera cinematografica, fonte di successo per il giovane regista americano. Era il 1971, e di lì a poco Spielberg avrebbe girato i suoi primi indiscussi capolavori come Lo Squalo, Incontri Ravvicinati del terzo tipo e I predatori dell’arca perduta.
Il regista e attore Terry Gilliam, in un’intervista, descrisse il cinema e i film di Spielberg come straordinarie parabole senza domande. Il suo cinema non avrebbe lasciato mai dubbi, idee discordanti tra il pubblico, perché era ed è un puro e semplice spasso meraviglioso che detta già le sue risposte. Cosa che lo distingue molto da altri registi come Kubrick, che cercavano di far sprigionare dalla mente degli spettatori le più varie e infinite ipotesi sulla trama e sul senso più profondo dell’opera d’arte; sia essa cinematografica, teatrale, pittorica, ecc.
Se in parte è sempre stato così, non si è mai potuto discutere sulla bravura di Spielberg nel saper narrare una storiella, anche semplice e mediocre, e trasformarla nella leggenda più emozionante di sempre. In Duel già si delineava questa predilezione, con la differenza che in questo film, forse più degli altri, sorsero e sorgono ancor più ipotesi e domande inerenti alla storia. Quindi Gilliam da una parte aveva torto; non aveva considerato il primo lungometraggio.
Pochi interpreti e una trama tanto scarna quanto emozionante in tutta la sua durata; girata con attori semi sconosciuti, presi dalla televisione e dal suo sconfinato mondo di programmi e talk show di quegli anni. David Mann (Dennis Weaver), pacifico commesso viaggiatore, si mette in macchina alle prime ore del giorno e attraversa il deserto californiano nella speranza di arrivare in tempo al suo appuntamento e concludere un importante affare. Tra una stazione radio e l’altra, nella noia della lunga strada americana, s’imbatte in una mostruosa autocisterna ormai consunta dagli anni e da ciò che sta trasportando, la quale comincia a causare dei problemi al tranquillo viaggiatore. In un primo momento David la sorpassa procedendo alle sue solita miglia orarie; ma dopo qualche istante il grosso camion lo supera e gli si para davanti, deciso a non dargli strada. Quando finalmente il protagonista gli sfreccia davanti pensando di averlo proprio seminato, ecco che l’autocisterna torna più furiosa che mai. Dopo averlo tamponato, la macchina di David esce di strada uscendone fortunatamente illeso. Si ferma ad un ristorante, sperso tra monti e brulle colline, cercando di capire perché quel camion si comportasse in quella maniera.
Rendendosi conto che l’autocisterna è parcheggiata fuori dal locale, David crede che l’autista sia li dentro, e fra vari camionisti intenti a mangiare, vuole assolutamente capire quale sia e chiarire la situazione. Purtroppo s’imbatte nell’uomo sbagliato che lo prende a pugni e a male parole; nello stesso momento l’autocisterna riparte e David cerca di raggiungerlo a piedi senza riuscirci. Si rimette in viaggio, ma ad aspettarlo, alla fine di una galleria, c’è ancora l’autocisterna. Da quel momento non lo lascerà più in pace e cercherà ogni volta di ucciderlo, facendolo finire sulle rotaie di un treno o andandogli addosso ad una stazione di servizio dove il protagonista si era fermato a chiamare la polizia. La classica lotta tra Golia e Davide -dal quale il protagonista ne riprende anche il nome- che si conclude con il trionfo dell’astuzia da parte del più piccolo e indifeso contro il grosso gigante di ferro.
Ci può essere in parte un riferimento biblico e linguistico; il cognome Mann, che in tedesco significa “uomo”, abbinato al nome “David” rimanda immediatamente allo scontro leggendario tra il giovane re d’Israele e il gigante che imperversava in tutta la regione. Quindi un uomo qualunque, l’ultimo degli ultimi, che si ritrova a dover combattere contro qualcosa o qualcuno superiore a lui per proporzioni e cattiveria. Solo la furbizia può salvarlo, ed è quello che accade nel film di Spielberg.
Eppure si potrebbe trovare un’ulteriore chiave di lettura. L’autocisterna come personificazione della morte venuta a prendere il commesso viaggiatore, il quale non se la sente proprio di andarsene all’altro mondo. Le lunghissime e interminabili strade sempre dritte della California si trasformano in una discesa verso gli inferi omerici e danteschi per poi tornare in superficie una volta avvenuto lo scontro finale. La classe dei camionisti si trasforma in un girone infernale di demoni sghignazzanti e menefreghisti; le osterie lungo la strada dei luoghi di apparente riparo, dove ogni volta c’è una svolta e accade qualcosa di nuovo. L’autocisterna che incombe, è come un dio della morte, se non la morte in persona, venuta a prendere un’altra vittima.
Se per Bergman la metafora della morte è vista come una partita a scacchi, per Spielberg tutto si trasforma in una corsa a ostacoli, un duello stradale in cui, a fare da protagonisti, ci sono i nuovi modelli e prodotti dell’era moderna; un automobilista ormai risucchiato dal quotidiano su e giù del lavoro e un camionista furioso, che non si vede mai per tutto il film. Il camion si trasforma in un’essere vivo e indipendente in cerca di sangue e di vittime da falciare. Ma è anche una metafora dell’alienazione data dalla crescita demografica, dalla vendita di macchine, dalle trasformazioni sociali ed economiche che, pur non visibili nel film, sono le motivazioni della nascita di questo nuovo e inquinato mondo. Un duello tra l’uomo moderno e la sua più grande e spaventosa creazione; la modernità.
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