Porpora – Uccelli ammutoliti

[segue]

– Quanto duri?

– Tre minuti se sei fortunata.

– D’accordo, però poi ti occupi di me.

– Ma almeno sei una puttana?

– Ha importanza?

– Ti sto pagando.

– Se non paghi non scopo.

– Andiamo dove voglio io.

Quando ebbe finito di lavarsi le mani mi guardò: era una brunetta niente male. L’avevo seguita fino nel bagno delle donne, vedevo che le altre mi guardavano male.

– Non vorrai portarmi in un vicolo buio, fare quel che devi e poi darmi una botta in testa? Non sarai uno psicopatico?

– No, per strada, in mezzo a tutti, ma nascosti. In un posto molto affollato, così mi piace.

Ci pensò un po’ su, poi tirò su il ciuffo dalla fronte e disse che andava bene.

– Aspettami fuori.

– Ultima cosa: come ti chiami?

-Erika

Erika mi aveva fatto sentire bene, ma era ora che tornassi nella società, che tornassi da dov’ero venuto.

Presi la macchina e mi diressi a Colonia, mezz’ora di autostrada e stavo parcheggiando nel garage della casa dei miei genitori. Una fila di macchine sconosciute costeggiava la strada da un lato e dall’altro, ne riconobbi qualcuna della nostra società.

Fuori l’ingresso alcuni uomini fumavano in silenzio. Quando mi avvicinai qualcuno mi fece le condoglianze o si permise qualche parola in più. Le finestre erano chiuse e, sebbene un leggero mormorio delle persone che erano dentro si avvertisse già da fuori, la villa assomigliava ad una casa abbandonata. Non avevo mai avuto familiarità con quel posto: i miei la avevano comprata quando io mi ero già stabilito a Bonn, quando mio padre aveva già fatto i soldi e necessitava di rappresentare con qualsiasi mezzo la felicità della sua fortuna.

– Heinrich, sono tremendamente dispiaciuto per la morte del tuo vecchio, sono qui da mezzogiorno per far un po’ di compagnia alla tua povera madre.

– Heinrich, se avessi bisogno di qualcosa quando passi per Düsseldorf,  non farti scrupoli a chiamarmi: io e tuo padre siamo stati amici da quando avevamo vent’anni.

– Heinrich, potevi almeno cambiarti la giacca prima di venire, sembri uno zingaro.

– Mamma, ho avuto una mattinata molto impegnata.

Mamma era tirata a lucido come non l’avevo mai vista negli ultimi dieci anni, ma sulle palpebre, negli zigomi e nelle pupille, aveva accuratamente depositato il segno della povera vedova addolorata.

– Vai a vedere la salma, non sta bene che tu stia qui così.

Non avevo idea del perché la salma fosse ancora in casa, ma evitai di fare domande perché la mia posizione di ‘assente alla morte del padre’ era indifendibile.

Cambiai stanza per dare l’impressione che stessi andando nella camera da letto a far visita al morto, invece raggiunsi il salotto e mi sedetti in poltrona. Era la poltrona di mia madre, quella di mio padre era rimasta inviolata e i presenti la osservavano con distratto interesse.

Immaginai che fosse sufficiente restare lì seduto per un paio d’ore, conversare con qualcuno magari e continuare ad evitare mia madre.

– Signor Meyer, permetta anche a noi di farle le nostre condoglianze.

Un gruppo di quattro o cinque uomini sostava di fronte a me, erano tutti vecchi, tutti esponenti del Consiglio di Amministrazione.

– Il signor Meyer era mio padre, signor Baumann, continui pure a chiamarmi Heinrich per il momento. Ad ogni modo vi ringrazio per la vostra premura.

– Avremo molto da lavorare adesso, il signor Meyer ha sempre tenuto in mano la situazione in maniera impeccabile. E’ possibile che ora la responsabilità sia pienamente sua, Heinrich.

– Signor Ghotel, farò tutto quello che mio padre ha voluto che io faccia.

Qualcuno rise tra i vecchi, erano abituati a succhiarmi via tutto il disprezzo.

– Ma certamente Ghotel, il ragazzo assomiglia al padre quando aveva la sua età. La Meyer Corp. non ha nulla da temere e non lo abbiamo neanche noi. Quello che importa è che si continui lungo il sentiero della chiarezza e dell’onestà che si è sempre percorso, che le cose succedano alla luce del sole e che nessuno pretenda più di quel che gli spetta, come si è sempre fatto.

Mi risentii per le parole del signor Baumann e non riuscii a vincere la collera per impedirmi di parlare.

– Signor Baumann, se si sta domandando riguardo la sicurezza del suo posto alla Meyer Corp. la posso assicurare che rimarrà illesa, a dispetto anche del suo atteggiamento sprezzante nel toccare questo genere di argomenti al funerale di mio padre, proprietario della società per cui lavora. Per quel che riguarda la chiarezza e l’onestà di cui parla, non mi faccio problemi a dichiarare qui e ora che nessuna delle nostre fabbriche sul territorio sarà chiusa per alcun investimento privato. Eppure non riesco davvero a capire di che parla, dal momento che, invece, mio padre, sotto vostra stretta direzione, non si fece scrupolo a chiudere negli anni settanta, proprio qui a Colonia, dove conosceva ogni singolo lavoratore, e a mandarli tutti a casa.

Mia madre era comparsa sul ciglio della porta, sapeva cosa stava succedendo. Si scusò con gli altri e li mandò via offrendogli qualcosa da mangiare, a me disse di salire alle stanze superiori.

Probabilmente avrei dovuto farlo subito, rimasi da solo nell’immenso corridoio del secondo piano.

Il Consiglio di Amministrazione era composto da quindici rappresentanti che un tempo erano stati collaboratori del mio vecchio, che un tempo lo consideravano un loro pari. Quando mio padre riuscì ad ottenere sufficiente capitale, dopo poco ad uno ad uno li assunse tutti nella sua società. Non fu più la stessa cosa: più di una volta aveva minacciato di chiudere l’amministrazione e loro avevano cercato prove per imputarlo di frode a danni dello Stato.

In fondo al corridoio trovai lo scantinato. Aprii la porta ed accesi la lampadina che pendeva dal soffitto: c’era un cumulo di oggetti sistemati l’uno sull’altro, oggetti che appartenevano a me, a mia madre, o dimenticati da tutti.

Stavo cercando i miei diari, sapevo che mia madre non aveva avuto il coraggio di buttarli. Erano settimane che ci ripensavo, strano che proprio quel giorno io li ritrovassi. Alzai un vaso da sopra una cassetta, scoprii il lenzuolo e la aprii, erano lì.

Mi preoccupavo di scrivere sempre la data in rosso e gli appunti in blu, ne sfogliai qualcuno; quand’era precisamente che avevo smesso di scrivere?

Mi decisi a bruciarli subito dopo averli letti, forse sarei stato ancora in grado di dimenticarli, ma adesso provavo un’attraente ossessione nel provare vergogna.

Trovai un post-it in una pagina, la colla era scomparsa ed era caduto all’interno, ma per un attimo mi parve di riconoscere il giorno in cui lo avevo lasciato lì. Era stato un bel giorno.

“Ero in aria che levitavo e guardavo la terra con divertita simpatia. Dolce librarsi e piena libertà: mai che qualche ramo di un albero mi afferri e qualcuno di giù, scambiandomi per un ladro di frutta, mi dica – Tu non hai il permesso di stare lì, scendi subito! – Mai e poi mai. E se anche fosse non mi importerebbe; perché io so sfuggire e scomparire, so scansare gli alberi o liberarmi dalle loro mani e so rispondere che io non voglio avere più a che fare con gli uomini che vivono nelle caverne.

Ma quando poi è successo mi sia allontanato troppo? E quando invece che avessi paura d’allontanarmi troppo? Disgraziato il destino di chi volle essere superiore e fu risucchiato verso profondi abissi celesti, che il mondo  -contrariamente a come si pensava – è oscuro in alto e in basso e solo sulla terra respira la vita.

Raggiunsi la cima del cielo e poi le stelle –che erano lampadine a gas in fin dei conti – la terra era lontana e quel sogno che fu vivere leggeri e pensar da uccelli, senza un lamento nell’orbe degli oggetti astratti, si fece incubo.”

– Heinrich, torna giù, vorremmo commemorare tuo padre tutti insieme, mi hanno chiesto di chiamarti.

Seguii mia madre giù per le scale e vidi che tutti erano radunati in cerchio nel salotto.

– Heinrich stavamo dicendo qualche parola buona per l’anima di tuo padre. Vorresti unirti a noi, dire la tua?

Tutti mi fissavano, tutti i vecchi dell’Amministrazione con le loro puttane inscatolate da mogli, tutti quelli che avevano fatto i soldi grazie alle azioni nella Meyer Corp. e quelli su cui era stato mio padre ad investire, tutta la mia famiglia, che si risolveva a dimenticare il sottile odio sempre dissimulato per quel despota d’un patriarca, tutti quelli che non conoscevo ma sapevo conoscermi; tutti i più schifosamente ricchi della Renania.

– Mio padre – dissi inesorabile, sapevo che tutti si aspettavano io crollassi – Era un grand’uomo – Mia madre, forse, tirò un sospiro di sollievo.

– Ricordo un sogno di quand’ero piccolo. Ero nella casa dove io e la mia famiglia abitavamo prima che loro venissero qui. E c’era mio padre, nel sogno, com’era quando ero piccolo, nel suo momento migliore. Mi guidava per le stanze e mi portava su una rampa di scale che non avevo mai visto prima, che non faceva parte della casa. Salii le scale insieme a lui. Sopra c’era un sottotetto molto grande e quasi completamente vuoto, ma c’era qualcosa nel fondo della stanza che non distinguevo bene, qualcosa di scuro: un’ombra. Mio padre mi disse che non dovevo avere paura, mi disse che quell’ombra era il Male e che io non dovevo averne paura, perché faceva parte della vita.

Osservai il cielo tra le fessure delle finestre, alcune nuvole passavano sopra gli alberi della strada. Improvvisamente ebbi la nausea.

– Perché mio padre era così: non aveva paura di niente! Era pronto ad affrontare il bene come il male e ad uscirne sempre puro, come una vergine! Per tutta la vita non ha fatto altro che dedicarsi agli altri, di fare del bene, sempre e comunque; e il suo impero è l’impero di tutti, l’impero della nazione tedesca vera e propria! Possiamo noi sempre portare nel cuore l’anima di questo grande tedesco che ha dato così tanto per le nostre vite. – Poi, incerto, aggiunsi – Dio, per questo noi ti preghiamo.

La stanza cadde nel silenzio, osservai i volti dei presenti pieni di collera, ero la lepre prima che cominci a correre. Poi qualcuno disse una parola e tutti gli altri tornarono ad indossare la maschera della compassione.

– Bravo, Heinrich!

Tutti sapevano che mio padre non mi parlava da un anno.

[continua]


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