Der Hauptmann è un film tedesco del 2017, diretto da Robert Schwentke.
Due settimane prima che la Germania si fosse arresa e che Hitler fosse caduto, lasciando una nazione in ginocchio in attesa del nemico dai due fronti. Un essere, una maschera di fango corre nel bel mezzo di una campagna tedesca sul finire della seconda guerra mondiale. Costretto a fare zig zag tra alberi e arbusti perché inseguito da un camion militare che gli si fa sempre più vicino. A bordo, uomini sconvolti, infuriati e assetati di sangue, brandiscono armi e fanno fuoco sulla giovane preda ormai sfinita, mentre un altro di quei malconci soldati soffia incessante in una tromba emettendo suoni straziati, quasi come dei guaiti di un cane o gli ultimi rantoli di un maiale che sta per tirare le cuoia. Tutta la scena in un bianco e nero tagliente, come i due alberi all’orizzonte che poi saranno la salvezza del giovane fuggitivo. Rintanatosi sotto la radice sporgente di una quercia, il protagonista è salvo. I suoi inseguitori perdono le sue tracce e decidono di ritirarsi. Tra il gelo e la neve appena caduta, trascina i piedi infreddoliti e ricoperti da stracci logori fino ad un auto abbandonata. Trova un cesto di mele e una divisa di un ufficiale della Wermacht. La indossa, e aspetta.
In meno di cinque minuti dalla sua apertura, il film di Robert Schwentke ci accompagna, senza tanti giri di parole, nella vicenda del soldato Willi Herold, che alla fine del conflitto mondiale, e solo diciannovenne, vestì realmente i panni di un ufficiale tedesco seminando terrore e morte in un campo di concentramento e nei paesi circostanti. Der Hauptmann è un tributo magnifico e crudo su questo episodio. Uno dei tanti generati dal caos generale di un paese distrutto, tradito e colpevole. Tuttavia, come Brecht insegna, ora più che mai la follia dilaga senza chiedere spiegazioni e giustificazioni. Semina il panico tra la gente, e la violenza degenerata investe ogni individuo.
Lo stesso succede a Herold che, grazie ad una fervida immaginazione e coraggio, riesce a fingersi un ufficiale mandato dallo stesso Führer e tutti, ormai pronti a tutto, gli credono permettendogli di prendere il potere e seminare la morte tra i prigionieri di Emslandlager, un gruppo di campi di detenzione situati nella Bassa Sassonia. In una situazione del genere ormai ogni cosa è concessa e tutti possono fingere di essere ciò che prima erano tutt’altro. Come avviene in molte opere brechtiane che descrivono il corso e la morte del dispotismo di Adolf Hitler, come per esempio il suo rifacimento dell’Antigone di Sofocle, la colpevolezza è di tutti ma ognuno prende le distanze per paura o vergogna; quando le due sorelle trovano il corpo impiccato del fratello nazista, ma per paura di essere punite anche loro, fingono di non conoscerlo. Schwnteke si muove sullo stesso piano del grande scrittore, rielaborando la vera vicenda di questo soldato con trucchi stilistici e narrativi originali che vanno a rendere omaggio non solo a Brecht ma anche ai grandi romanzi d’avventura. Uno fra tutti “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe.
Infatti il protagonista, Willi, è si figlio della guerra e della pazzia hitleriana, ma è anche un disperso, un naufrago in una terra ostile, selvaggia senza più leggi e veri padroni. La nave è colata a picco e lui è l’unico vero superstite. Lui e un altro soldato che trova lungo il suo cammino e che si mette al suo completo servizio; Freytag. L’allusione al Venerdì del romanzo di Defoe è davvero scontata quanto sottile (“Freitag” significa “venerdì” in tedesco). Per questo, la civiltà perduta di Herold e quella mai conosciuta di Freytag si scontrano con un’umanità fatta di brandelli di uomini consunti e spaventati; più pericolosi adesso di quanto non lo fossero prima. Ognuno è disposto a fare qualsiasi cosa, uccidere, rubare, stuprare, fingere e mentire, pur di salvare ciò che rimane.
Ma cosa rimane realmente? Resta la certezza che la guerra stia per finire anche se si cerca inutilmente di mandare avanti la baracca. Nel film è visibile come solo una piccolissima parte degli ufficiali abbiano cercato di evitare l’abominio del Capitano Herold: “Non è da tedeschi” recita un ufficiale. Tuttavia, non è la ragione a parlare ma la stanchezza mista alla paura, e la consapevolezza e anche l’inconsapevolezza di ciò che avveniva nei campi di concentramento. Più una consapevolezza, che arriva ad essere un paradosso: come se durante la guerra tutto fosse più lecito, e ora che la guerra sta per finire e ogni cosa è realmente lecita (come usurpare il grado ad un ufficiale rubando il potere) con l’intervento di Herold a Emslandlager, ci si stupisce un poco, e ci si scandalizza. Solo Herold, in una lucidità a metà strada tra insensatezza e genialità, sa che è inutile rimediare adesso e in questo preciso momento storico. Perciò anche lui, alla fine, getta via la sua ingenuità da semplice soldato -quella che probabilmente a Norimberga e durante la Denazificazione non era stata dichiarata responsabile della furia nazista- ed entra nel club dei colpevoli. Una piccola parte, come in un’opera teatrale di Brecht; un piccolo ruolo che lascia il segno.
Al bianco e nero, si intervallano brevi frammenti a colori solo per ritornare un istante alla realtà. Il resto è cupo e modellato sui volti taglienti dei protagonisti. Un Herold eccezionale quello del giovane Max Hubacher, che il più delle volte mette in ombra gli altri attori; tuttavia non sono da meno. Milan Peschel, nella parte di Freytag, Frederick Lau, Alexander Fehling, e Waldemar Kobus. Una recitazione che ha due momenti ben precisi; una fredda interpretazione iniziale che cozza con la seconda parte, quasi più surreale e folle, per poi tornare a quelle atmosfere iniziali. La sintesi di quell’epoca.
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