Il drammaturgo e regista teatrale Marco Martinelli è stato ospite del Ravenna Nightmare Film Festival con il suo film d’esordio Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale dello stesso regista, nella sezione Showcase Emilia-Romagna, dedicata al cinema prodotto nel territorio emiliano-romagnolo.
Ma come nasce l’idea di rappresentare la vita di Aung San Suu Kyi, quest’eroina birmana, e come nasce l’elaborazione di questo progetto? L’idea è nata in volo perché io e Ermanna (l’attrice protagonista che interpreta Aung San Suu Kyi nel film e anche nello spettacolo teatrale, ndr.) eravamo diretti a New York per recitare in un teatro d’avanguardia. E sfogliando una di quelle riviste che si trovano sugli aerei e vedendo questa immagine di Aung San Suu Kyi, questo volto severo e sorridente allo stesso tempo, mi è venuto spontaneo dire ad Ermanna “Ma non t’assomiglia?” Da questa somiglianza è poi nato l’interesse di approfondire e studiare questa figura che avevamo sentito nominare -come credo tantissimi- ma non conoscevamo realmente. Da lì siamo entrati nella sua storia approfondendo anche la vita del suo paese. Non si possono raccontare le vicende di Aung San Suu Kyi se non si racconta in controluce la storia di una delle dittature più terribili e longeve del pianeta. Così si è costruito lo spettacolo teatrale, e la mia scrittura di “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”. E proprio mentre facevamo le prime repliche c’è stata questa intuizione di portare questa storia al cinema, ma non facendo teatro filmato -una delle cose meno belle e meno interessanti che ci siano, in genere i video di documentazione appiattiscono quella che l’energia dei corpi a teatro- ma riscrivendola completamente. Facendo un lavoro come da un romanzo, ma per lo schermo. Con la stessa libertà di ripresa e costruzione.
Attuando questo scambio tra teatro e cinema, ha incontrato difficoltà nel passaggio tra i due modi di rappresentazione della storia? Sognavo il cinema da sempre, fin da quando ho iniziato a fare teatro. Avevo scritto un paio di soggetti,una sceneggiatura, avevo frequentato qualche set ma non ero mai riuscito a realizzare questo mio desiderio e nel farlo -perché poi le cose le capisci facendo- mi sono reso conto di quanto questi due linguaggi siano fratelli ma anche distanti tra loro. È questo rapporto davvero ambiguo di distacco e di lontananza, insieme, che mi affascina.
Nel film c’è un’occidentalizzazione della storia birmana. Come ho detto all’inizio abbiamo studiato tantissimo e non ci siamo fatto mancare nulla nell’ approfondimento. Tutti i dati sono reali e appartengono alla storia di quel paese. La chiave di lettura però è una chiave nostra.Non si può far finta di essere birmani. È da qui che vediamo quella storia e a differenza che nello spettacolo teatrale, che non c’erano, la chiave di entrata sono le bambine che offrono uno sguardo infantile su un mondo di grandi, un mondo di mostri sanguinari. Bambine che con la loro innocenza ci raccontano l’orchidea d’acciaio -così chiamano Aung San Suu Kyi al suo paese: da una parte una donna minuta che ha fatto della non violenza un modo profondo della sua rivoluzione spirituale e politica e dall’altra parte una donna determinatissima capace di contrastare il potere dei militari.
Nelle sue opere teatrali, e anche in questo film, ci sono tante influenze italiane, ma soprattutto emiliane. Certo! Ma sai, quando chiedevano a Petronini “Ma lei da dove discende? Dalla commedia dell’arte o dai guitti del medioevo?” lui rispondeva:”Scendo dalle scale di casa mia”. E questo vale per me come vale per Fellini, Antonioni e tutti i registi che volenti o nolenti hanno le radici da qualche parte. Questo influenza il loro modo di raccontare. Le bambine per esempio sono di qua. Deve essere chiaro che è da questo luogo che si racconta. Da questa Romagna un po’ anarchica, per fortuna, si racconta una storia come quella della Birmania.
Oggi Aung San Suu Kyi è libera e guida il Paese, ma non viene più considerata un’eroina dal mondo per quello che sta accadendo con i Rohingya. È molto contestata e accusato dall’esterno. In Birmania continuano a sostenerla. È una storia dannatamente complessa. Secondo me Aung San Suu Kyi sta facendo tutto il possibile per i Rohingya in una democrazia che non è ancora una democrazia, perché i militari non hanno veramente lasciato il potere. I tre ministeri chiave della nazione birmana (frontiere, esercito e interno) sono affidati ai generali a prescindere da quello che accade alle elezioni. Si capisce che se noi facciamo le elezioni ma il tuo partito ha il 25% dei seggi in Parlamento, è come se vinci 3 a 0 prima che l’arbitro fischi l’inizio della partita. E in più la tua squadra deve giocare solo con una gamba sola, perché i ministeri chiave ce li devono avere i militari. Ci si può chiedere perché lei non lasci questa situazione e cominci a contestarla. Lei lo dice, ai nostri amici che sono lì a collaborare con lei, che sarebbe facile venire in occidente nei migliori talk show inglesi e americani a condannare i cattivi. Ma così non farebbe il bene del suo paese. Così è là e si sta sporcando le mani e la reputazione sacrificandosi. È paradossale quello che dico lo so, ma lo credo: si sta sacrificando in maniera diversa da come si è sacrificata per 20 anni agli arresti. È un altro modo di sacrificarsi. E quando le dicono che le hanno tolto tal premio -lei che è stata Premio Nobel- risponde che i premi vanno e vengono, e che il suo premio è stare lì a combattere con il suo popolo perché questo processo verso la democrazia arrivi veramente a compimento. Questo è il nostro giudizio. Il film lo abbiamo fatto quando questa questione dei Rohingya non era ancora esplosa e lo abbiamo anche temporalmente chiuso in una cornice. Il film si chiude nel 2010 e non arriva alla vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni. Noi ne volevamo raccontare la vita agli arresti, come dice il titolo. Però non è che ci sentiamo male per questo, anzi… io tutte le volte che posso seguo il film perché so che è anche un modo per starle vicino in questo momento. Paradossalmente più adesso che quando era agli arresti.
Ha mai avuto un contatto personale con Aung San Suu Kyi? Ce lo abbiamo avuto per interposta persona. Grazie ad Albertina Solari che ha parlato ad Aung San Suu Kyi del nostro lavoro e le ha dato il testo teatrale. Lei poi ci ha scritto una lettera molto bella, in cui ha detto che farà di tutto, compatibilmente coi suoi impegni, per riuscire a vederlo. Pensa che è meglio non mandare il film in Birmania. Per dirti la situazione. Questo film è troppo critico verso i militari e il passato. Forse non sarebbe neanche proiettato… No, anzi. Albertina ci ha detto che è meglio che lei veda il film in Italia, Francia, in Europa dove sarà proiettato. Proprio per sottolineare quanto è ancor complicata la situazione laggiù.
Abbiamo citato Pasolini e Fellini, due grandi registi nati nella sua stessa regione, l’Emilia-Romagna. Verso quale dei due nutre più ammirazione? Ho citato non a caso quei due, quella coppia strana, che per me sono stati, molto prima che facessi cinema, maestri d’arte di cui mi nutrivo. “Il Vangelo secondo Matteo” da una parte, “Uccellacci e uccellini” o “8½” sono capolavori. L’uno, Pasolini, è stato capace ancora di percepire il sacro ancora in un’epoca di disincanto totale, in un’epoca che lui chiamava provocatoriamente di laicismo cretino: quell’essere attaccati alla propria ratio, la ragione che è stata per secoli servitore di sentimenti e movimenti dell’animo più profondi. Ragione che era importante come servitore e ora è diventata lei il sovrano: ciò che si muove nella tua razionalità va bene, quello che si muove all’esterno è da censurare. Lui invece è stato un grande perturbatore perché ha fatto mescolare insieme il sacro con il profano. E dall’altra parte la fantasia inesauribile e i sogni di Fellini, la sua capacità anche clownesca di stare dentro al nostro inconscio, ai fanghi che ci abitano. Sono due dioscori, due Castore e Polluce.
Progetti per il futuro? Ma certo che ci sono. Guarda c’ho preso gusto, pur essendo arrivato così tardi al cinema. È proprio una vocazione tardiva potremmo dire, sognata da sempre, ma realizzata solo a quest’età. Il piacere e il desiderio di continuare c’è.
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