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Il desiderio di dare alla propria arte una vita eterna, che vada al di là della vita mortale dell’artista, muove l’essere umano verso nuovi limiti espressivi. Questo desiderio può però facilmente trasformarsi in un’ossessione che consuma l’uomo dall’interno e lo spinge verso una condizione in cui di umano c’è ben poco.
Questo è in breve il grande tema che si cela dietro Perfect Skin, thriller psicologico del regista inglese Kevin Chicken. II grande tema dell’arte è sviluppato all’interno del mondo della body modification londinese, dove il tatuatore Bob Reid vede nella pelle della giovane polacca Katia una tela perfetta per la sua arte.
Se il tatuaggio viene considerato come un atto di espressione per il proprio io, per Katia questo rappresenta un atto di violenza. Katia infatti non si sottopone volontariamente alle attenzioni artistiche di Bob ma ne è vittima, prima sequestrata e poi letteralmente torturata, psicologicamente e fisicamente. Rinchiusa per mesi in uno scantinato dovrà sopportare le sessione di tattooing del suo aguzzino, che ne vuole fare un’opera d’arte che possa consacrarlo per l’eternità.
Bob è un personaggio disturbante. La sua ossessione per la sua arte lo porta ad agire da non umano. Maneggia la sua vittima come un scultore farebbe con il marmo, con attenzione e delicatezza ma curandosi solo di ottenere il suo scopo artistico. Le precauzioni che prende non sono per salvaguardare la salute e la vita di Katia, ma per preservare quella purezza che la qualifica come tela.
I due personaggi si sviluppano lungo due binari paralleli ma che condurranno infine a due destinazioni differenti. Non è solo il corpo di Katia a cambiare, ma anche la sua psiche. Bob, cercando di dare un senso alla sua vita dedicandosi all’arte, si proietta totalmente nel suo rapporto disturbato con la sua prigioniera-tela.
Il regista riesce magistralmente a trasmettere allo spettatore l’ossessione di Bob, con scene di un forte impatto emotivo e visivo. L’ago che colpisce ripetutamente la bianchissima pelle di Katia scandisce progressivamente la maniacale ossessione di Bob. L’inchiostro si espande e conquista lo schermo come un veleno che nutre la sadica ossessione del tatuatore.
L’uggiosa atmosfera londinese che si ritrova per tutta la pellicola non è solo una cronaca della realtà climatica della capitale albionica ma una maniera per raccontare l’animo dei protagonisti: soli, distrutti, reietti, tristi e perduti. Nella loro vita non c’è e non può esserci nessuna luce, se non quella asettica degli interni.
Katia in questo senso è l’emblema di una speranza per un futuro migliore. Lei, immigrata da pochi mesi nella capitale inglese e dalla pelle così bianca che quasi brilla di luce propria, rappresenta la speranza in una vita migliore. Una speranza che si spegne mano a mano che la sua candida pelle si ricopre della malsana ossessione del suo carceriere.
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