Il 2 Novembre 2018, in collaborazione con il Festival letterario GialloLuna NeroNotte e con Ravenna Teatro il Ravenna Nightmare Film Festival ha ospitato Giancarlo de Cataldo. Lo scrittore e sceneggiatore, maestro del noir contemporaneo, si è concesso per un breve intervista prima di assistere al Teatro Rasi di Ravenna allo spettacolo teatrale Gul, di e con Gemma Carbone, di cui è uno sceneggiatore.

Letteratura, cinema, serie televisive, teatro e anche fumetto. Come ha gestito questa varietà di mezzi espressivi in cui si è cimentato? Sono fondamentalmente curioso. Ho grande curiosità di sperimentare varie forme di scrittura. Intanto mi avvicino, con quelle che non mi appartengono fino in fondo come il fumetto, con grande rispetto, in questo caso nei confronti della matita. Per una collaborazione parto da un rapporto d’amicizia e dalla condivisione di un certo modo di vedere le cose e di vedere l’opera che si sta facendo. Poi, come per il cinema è il regista che mette l’immagine, e nel fumetto è il disegnatore, io mi faccio un po’ guidare. Non sono il leader di queste operazioni. Sono il leader ovviamente quando scrivo una cosa mia. Ma in queste operazioni di gioco di squadra in cui è prevalente il linguaggio dell’altro tendo un po’ da adattarmi. Con Palumbo, per ‘Un sogno turco’ abbiamo lavorato in perfetta sintonia sulle didascalie e su tutto. Ho dimenticato di citare anche un bel fumetto che ho fatto con Steve Della Casa e Giordano Saviotti: ‘Acido fenico’ per Einaudi Stile Libero, una grapich novel tratta appunto da un mio testo teatrale. Lì il mio suggerimento è stato quello di rimpolpare le tavole. Erano molto eleganti in bianco e nero. Essenziali. Ho un po’ suggerito di ampliarle, e farlo più lungo. Ho fatto lavorare di più il disegnatore, ed è stato contento.
Anche il suo approccio iniziale con il cinema è stato più reverenziale? Ora si sente più confidente? Sicuramente sì. Si acquista confidenza strada facendo. Io però prima ancora di scrivere romanzi, ero un grande appassionato di cinema e volevo fortemente fare cinema. Avevo 16 anni e frequentavo i cineclub dove si studiava il cinema, una grande palestra di conoscenza. Ho scoperto che anche mio figlio coi suoi amici lo ha fatto per anni, tra i 18 e 20, di vedere i film insieme e discuterne. Il linguaggio del cinema mi ha sempre affascinato e non ho mai voluto vedere steccati tra parola e immagine.
Il cinema l’ha influenzata nella scrittura? Sì, assolutamente. Sono tributario al grande cinema italiano degli anni 60 e 70. Da Antognoni a Sergio Leone. Ho amato alla follia Orson Welles, da ‘L’infernale Quinlan’ a ‘La signora di Shangai’ che restano dei capolavori assoluti. Ho adorato ‘Quarto Potere’, John Ford. Takeshi Kitano è un altro regista per il quale provo un autentico trasporto. Poi dei contemporanei mi piacciono moltissimo Martone, con cui ho lavorato, Michele Placido, Garrone, Sorrentino e Caligari. Due film di Caligari erano magnifici, sia ‘Non essere cattivo’ che ‘L’odore della notte’.

Lei racconta la criminalità più strutturata e organizzata di Roma, da Romanzo Criminale a Suburra, mentre in Non essere cattivo la situazione è più anarchica. Sono cani sciolti. Io questi piccoli criminali li ho raccontati in ‘Teneri assassini’, che è una raccolta di racconti uscita prima di ‘Romanzo Criminale’ nel 2000. Lì è più interessante la traiettoria individuale: non c’è uno scenario nè corale nè se vuoi politico. La grande criminalità in Italia ha sempre un contatto con la politica. Questo riferimento è quasi obbligatorio. L’Italia è poi la terra che ha inventato la mafia, la ndrangheta: una terra in cui il fattore di alta criminalità è stato sempre molto importante. I destini individuali li racconto anche in ‘Nero come il cuore’, una storia di un bambino nero che scompare e quindi l’indagine in una Roma che sta conoscendo l’immigrazione. Immigrazione che non esisteva allora, o meglio che non era un problema così sentito come lo è adesso.
Come lei, Roberto Saviano ha scritto di criminalità e ne ha trattato sui vari media, che cosa ne pensa? Io nasco come romanziere, Saviano nasce come saggista, anche se Gomorra è quell’oggetto narrativo non identificato di cui parlavano Wu Ming al tempo del discorso sull’italian epic del 2000. Un modo di scrivere e di narrare. Lui poi è molto attivo anche sui giornali: un punto di riferimento per un pezzo significativo della nostra generazione, o meglio delle generazioni più giovani.
Tornando alla sua esperienza di sceneggiatore di serie: ha poi detto (nella conferenza precedente all’intervista, ndr.) che la serie è uno dei migliori metodi narrativi per raccontare le sfaccettature di un romanzo, ma la diversa fruizione del prodotto tra televisione e piattaforme digitali influenza la scrittura della serie? Questo discorso su come il pubblico fruisce non ci ha influenzato proprio per niente mentre scrivevamo. L’episodio deve sempre finire con un gancio per l’episodio successivo, un cliffhanger, quindi devi lasciarti come quando leggevo Tex Willer: con qualche cosa che mancava per arrivare alla fine. Continua. E che questo continua significhi tra una settimana o tra due minuti non ti interessa. Il punto è che il linguaggio evolve sempre più, e questo è un passaggio difficile secondo me ma ne sono abbastanza convinto. Da un lato tu hai la serie più simile ad un grande romanzo che a un film e dal’altro lato alcuni espedienti narrativi, alcuni fast forward, alcuni inserti di blocchi di memoria del passato, il fatto che il flash back venga largamente usato ma non si chiami più flash-back perché non viene quasi mai introdotto, ma entra prepotentemente nell’azione da una scena all’altra, il fatto che siano mescolati i piani temporali. Tutto questo che apparentemente è un insieme di soluzioni innovative lo è rispetto alla televisione. Non lo è rispetto alla storia del cinema, perché lì dentro c’è Dziga Vertov, c’è Pudovkin, John Ford e Frank Capra. Lì dentro ci sono gli slittamenti di piani temporali e narrativi che hanno fatto la forza della nouvelle vague o del cinema italiano degli anni 60. C’è un grandissimo recupero di tradizione abilmente adattata al nuovo tempo del linguaggio televisivo, secondo me.
Passiamo al teatro e allo spettacolo al quale ha collaborato come sceneggiatore: Gul, sull’omicidio di Olaf Palme. Ha detto che non ha voluto occupare troppo spazio rispetto a chi calca il palcoscenico. Sì perché è una forma di rispetto. Ma anche perché se Gemma si scrive la sua parte e poi la discutiamo insieme, lei la sente molto di più che se io gliela scrivo. E questo è accaduto. Io poi sono entrato nelle parti che lei e gli altri si sono scritti dandogli una visione d’insieme, intervenendo su qualche particolare tecnico e proponendo anche delle soluzioni sceniche, che poi alcune sono state accolte e altre no. Questo è normale in tutti i giochi di squadra. Voglio dire che lavorare su Olaf Palme mi ha costretto a confrontarmi con il personaggio Olaf Palme. Ho letto i discorsi di questo grande leader socialista degli anni 80 e mi sono reso conto che era un mondo completamente diverso dal nostro, come categorie di riferimento, come uso del linguaggio e come prospettiva. Eravamo di fronte ad un uomo che aveva una visione del mondo che poteva essere sbagliata, ma che per la quale ha dato la vita: ed era una visione d’apertura, d’integrazione, di progresso che non è tanto facile trovare oggi.
C’è una parte di pubblico che critica questi racconti che pongono criminali nel ruolo dell'”eroe”. Questa questione si è posta a lungo in tanti Paesi ma poi hanno smesso tutti tranne che in Italia. Ho anche elaborato nel tempo complesse risposte teoriche, però non credo che uno scrittore debba porsi dei problemi etici di rappresentazione delle cose che scrive. Mi auguro che il pubblico sia abbastanza maturo da distinguere ciò che è narrazione e ciò che è realtà. Sostanzialmente queste critiche non mi interessano.
Anche perché poi raccontare la criminalità può anche essere un modo per denunciarla. Tendenzialmente sì: questi di Romanzo Criminale muoiono tutti e finiscono male. Quelli di Suburra sono delle carogne e non facciamo molto per renderli simpatici, ma anche se fosse… Dovremmo criticare Dostoevskij perché Stravrogin, il protagonista de ‘I Demoni’, è un grandissimo personaggio? Noi quello ci ricordiamo alla fine e non le pallide controfigure che gli stanno intorno.
Non è nemmeno necessario che l’arte abbia una morale. Questo è il punto: l’arte che deve avere una morale è un arte che puzza di stato etico e quindi di censura. Quindi di indottrinamento. Di stalinismo.
Questo è un argomento interessante, è un discorso che torna molto: critiche verso registi, cantanti che mettono in scena il loro modo di vedere le cose e per questo vengono criticati… Io appartengo ad un pensiero laico che tende a combattere per la totale libertà d’espressione. Poi si può perdere. Ci sono epoche buie in cui si perde e gli artisti sono costretti a nascondersi. Spero che non stiamo tornando verso una di queste epoche.
Perché ha un sentore negativo? Succedono cose brutte e inquietanti intorno. Sì, purtroppo temo che si corrono dei rischi.