A volte, ma ciò sembra accadere più del previsto, ci dimentica di alcuni personaggi storici, letterari, musicisti, artisti, politici, ecc., che hanno dato davvero tanto per noi, per la società, per l’arte, per la cultura. Personaggi che con la propria invettiva e immaginazione, sono riusciti a cambiare il mondo e il nostro vivere.
Anche il cinema, naturalmente, ha i suoi benefattori, saggi, eroi, scegliete voi un nominativo, che purtroppo sono reclusi nel dimenticatoio generale. Mentre altri vengono, giustamente o eccessivamente, lodati, quelli non vengono mai citati. Non sono mai presi da esempio. Specie per un regista restare famoso ed eterno è un salto forse più difficile che per un attore. Eppure, alcuni registi sono ormai personaggi di culto; ormai impossibile e quasi stupido non citarli più. Gli altri rimangono confinati in uno sgabuzzino buio. E io mi domando: “perché?”.
Perché un regista come Elio Petri debba essere ricordato solo da un piccolo numero di persone? Un regista del suo calibro ha lasciato dei capolavori quasi immortali. È giusto che il suo lavoro venga ricordato ancora più di quanto si stia facendo. E quindi ora non possiamo fare altro che citare tre film di Petri che è un delitto non aver visto.
Nato il 29 gennaio a Roma, Petri è diventato, dopo una lunga gavetta come critico cinematografico, giornalista e co regista, una delle personalità più poliedriche che si aggirano nell’arte. Più specificatamente, nel cinema si è distinto come uno dei registi innovatori, un uomo che guardava oltre, un artista d’avanguardia. I suoi lavori hanno sempre preso spunto dalla realtá della società. Le sue storie nascevano nel periodo storico in cui venivano scritte e dirette. Petri si è sempre interessato alle problematiche sociali, alle lotte di classe, agli inciuci di potere e del potere che da anni governava l’Italia, agli scandali mafiosi e le rivendicazioni operaie. Insomma, ogni singola opera era frutto di una della tante sfaccettature sociali, politiche ed economiche che nascono quando l’uomo si trasforma in una bestia, in un essere alienato e che aliena; vittima della civiltà. Alcuni di questi film non possono non essere citati: “La decima vittima” con Ursula Andress e Marcello Mastroianni, “Il maestro di Vigevano” con Sordi, “Todo Modo”, “A ciascuno il suo”, e anche documentari di denuncia, come quello girato assieme ad attori come Volonté, Diberti e Montagnani che era una vera e propria indagine e ricostruzione dell’omicidio dell’anarchico Pinelli.
Una filmografia davvero invidiabile che, tuttavia, ha tre punte di diamante. Tre perle collegate tra loro. Tre capolavori che lo hanno reso un mostro sacro e intoccabile del nostro cinema. Film racchiusi in una trilogia, conosciuta come Trilogia della Nevrosi. Con questi Petri racconta un’Italia lontana, irriconoscibile, quasi fantascientifica; invece era l’Italia di soli quarant’anni fa e anticipava tutto ciò che avvenuto dopo e che sta avvenendo ora. Ci vuole un occhio attento per calcare così un’epoca storica, e Petri ci riesce proprio con “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, “La classe operaia va in paradiso” e “La proprietà non è più un furto”, rispettivamente, la nevrosi del potere, del lavoro e del denaro.
Andiamo a vederli insieme.
1 Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Del 1970, Indagine su un cittadino, come spesso viene chiamato, è considerato uno dei capi saldi del cinema di Elio Petri. Forse il suo capolavoro, ottenuto grazie alla collaborazione con Ugo Pirro per la stesura della sceneggiatura, alla musica di Ennio Morricone, a gli interpreti e al fatto che nasceva come film di impegno sociale e di denuncia, centrando a pieno l’obiettivo; i mali incarnati dai reggenti e lo stato di repressione mascherata da democrazia che vigeva durante i movimenti anarchici e le lotte studentesche. Il capo della sezione omicidi, che per tutta la durata del film resta anonimo, uccide la sua amante, Augusta Terzi, il giorno che viene promosso e assume l’incarico di ispettore capo nell’ufficio della polizia politica. Cosciente di ció che ha fatto, lascia dappertutto impronte digitali nella casa della vittima e indizi che rimandino a lui. Questo per provare la sua insospettabilitá, e il fatto che un uomo potente come lui non possa essere giudicato. Convinto di avere in mano le redini della situazione, prima cerca di fare ricadere le accuse sull’ex marito della donna e poi sullo studente anarchico Antonio Pace, che aveva avuto in passato una relazione con la vittima. È proprio Pace che, il giorno che viene arrestato per un attentato in questura, fa capire al poliziotto di sapere tutta la verità sull’omicidio. Alla fine sarà il poliziotto, preso del panico, a fare di tutto pur di farsi arrestare. Ma quando i colleghi e superiori, guidati dal questore, andranno a casa sua per saperne di più sulla faccenda, il film finisce con il poliziotto assassino fermo dinnanzi ai presenti. Non si sa per certo come va a finire, ma la frase di chiusura, ripresa da Kafka, ci fa intuire qualcosa. Un Gian Maria Volonté magistrale nel ruolo del protagonista e tutti gli attori che ne prendono parte: Salvo Randone, Florinda Bolkan, Orazio Orlando, Gianni Santuccio e Massimo Foschi. In questo caso è la nevrosi del potere a farla da padrone, mettendo un uomo di potere a rischio pur di fare vedere che ha ragione; che effettivamente è un cittadino intoccabile.
«Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano» – Franz Kafka
2 La classe operaia va in paradiso (1971)
Nel 1971 entriamo in fabbrica. Elio Petri si addentra nelle lotte dei lavoratori delle grandi industrie del nord Italia, dando voce agli sfruttati, agli scioperanti che chiedono la ridistribuzione dei cottimi. Si concentra in particolar modo sulla figura di Ludovico Massa, detto Lulú: uno stacanovista ai limiti della follia. Un uomo che fa il gioco dei padroni e per questo è malvisto e odiato dai suoi colleghi. Dopo aver subito tre intossicazioni da vernice, dopo essersi separato dalla moglie e dal figlio, e trasferitosi con una donna divorziata e con un bambino, Lulú non può fare altro che lavorare come un mulo, sebbene il suo stato psicologico cominci a preoccuparlo. Insomma siamo in piena società avanzata, con i televisori in cucina a guardare Mike Bongiorno, la febbre del consumismo e l’alienazione della fabbrica. Qualcosa cambia in Lulú dopo aver perso un dito negli ingranaggi di un macchinario dove stava lavorando. Isolato e paranoico, crede davvero di essere vicino alla pazzia e la cosa si aggrava quando perde il lavoro a causa degli scioperi fatti in azienda. Va a trovare il Militina, un ex operaio dell’azienda diventato matto e rinchiuso in manicomio. Lulú crede di fare la fine dell’amico ma mantiene un certo controllo fino a quando non riottiene il posto. Quasi sconfitto, quasi controvoglia, riprende a lavorare e nella confusione delle macchine e dei colleghi, confinati alla catena di montaggio, capisce che la pazzia è generale. O almeno noi lo intuiamo.
Nato sempre dalla collaborazione con Ugo Pirro, per il film Elio Petri riprende con se Volonté, il quale si trasforma in un operaio stanco, depresso, sfruttato e anche sfruttatore; perché Lulú non è né un padre né un marito modello, non è un tipo amichevole. Razzista nei confronti dei meridionali passa in testa a tutti i compagni, fregandosene dello sfruttamento e della politica, cercando di portare a casa qualche soldo in più. Tutto il film ruota attorno all’alienazione della fabbrica, alla nevrosi del lavoro che è una tematica tipica quando si parla di fabbrica, catena, cottimo. Volonté cerca di dare il meglio di sé modificando la voce, usando un tipo di recitazione che pare sia uscito da un manicomio. Un argomento già sfruttato da storici, economisti, filosofi, anche se Petri lo fa con originalità e in più il senso del dovere. Musiche di Ennio Morricone. Con Mariangela Melato, Flavio Bucci, Salvo Randone, Luigi Diberti e Luigi Uzzo. Gran Prix a Cannes come miglior film.
“Io propongo questa proposta…di lasciare subito il lavoro! Tuuch! E chi non lascia il lavoro subito adesso, è un krumiro e un faccia de merda!”
3 La proprietà non è più un furto (1973)
E si arriva al 1973 con la nevrosi dei soldi e del possedimento. Total, un impiegato di banca allergico ai soldi, si autodefinisce legato al marxismo-mandrakismo. Egli ruba quando vuole e segue una certa ideologia che lo porta a odiare un cinico, affarista e rozzo macellaio romano cliente della banca. Un uomo ricchissimo e con una bella fidanzata. Lo scopo di Total, dopo aver lasciato il lavoro ed essersi messo a seguire il suo sofisticato marxismo, è quello di rubare poco per volta ogni cosa che il macellaio possiede. Inizia con il coltello, poi il cappello, entra in casa sua e ruba i gioielli senza troppo preoccuparsi di mascherarsi. Un giorno prende anche la macchina e la sua donna, restituendogliela poco dopo. Convinto di volerlo distruggere, chiede aiuto all’ambiguo Albertone, mezzo uomo e mezzo attore, mezzo ladro e mezzo uomo di classe. Tuttavia Total e Albertone sono costretti a scappare quando, dopo essere entrati dell’appartamento del macellaio, lo sentono rientrare. I due si rincontrano in commissariato, dove, in combutta con il commissario e lo stesso Total, il macellaio darà la colpa di tutti i furti ad Albertone che, colto da una crisi, muore d’infarto. Il macellaio, qualche giorno più tardi va a casa di Total pregandolo di accettare i soldi che è disposto a dargli chiudendo così la faccenda. Ma Total non accetterà mai, e alla fine è costretto a scontrarsi con la furia del macellaio che lo strozza in ascensore.
Memorabile la scena del funerale di Albertone in cui un giovane Gigi Proietti, alias Paco l’argentino, recita l’elogio del ladro. Con la cadenza romana Ugo Tognazzi è inascoltabile, tuttavia quella del macellaio è forse una delle sue interpretazioni più memorabili. Quindi il fatto di non saper imitare alla perfezione il dialetto romano è uno studio voluto dal regista che rende il suo personaggio ancora più disprezzabile, ancora più canzonatorio. Poi c’è Flavio Bucci, nei panni di Total: il suo è un protagonista nevrastenico, anche lui molto vicino ad una lucida follia e a volte incontrollata. Il denaro da alla testa, specie quando non può essere toccato perché provoca allergia. Petri conclude questo trittico nevrotico con il problema di non poter possedere nulla, invidiando chi invece sa fare affari, ha tanti soldi ma naturalmente è l’uomo sbagliato; un individuo che si potrebbe definire come un grosso porco, anche lui ladro, che cerca in ogni modo di arricchire sempre più. Con Salvo Randone, Orazio Orlando, Daria Nicolodi, Mario Scaccia, Ettore Garofolo ed Elena Fabrizi.
Filo conduttore di tutti e tre i film è la nevrosi causata dalla nuova società, ma anche le musiche, sempre di Morricone, e la presenza fissa di Salvo Randone che si sussegue in tutta la trilogia. Un attore di teatro che Elio Petri utilizza in tutti i modi possibili, facendogli fare prima un idraulico, poi un vecchio ospite del manicomio e infine il padre del protagonista, ex bancario integerrimo.
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