Il Van Gogh di Julian Schnabel – La necessità e il tempo

Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, un film di Julian Schnabel, un’offerta al grande pittore olandese, all’arte e alla natura.

Julian Schnabel è un artista poliedrico che ha saputo trasformare il suo amore per la pittura in genio cinematografico dedicando le sue pellicole ad altri professionisti dell’arte come Basquiat, nel film omonimo del 1996, e il poeta cubano Reinaldo Arenas con Prima che sia notte, nel 2000.

Una figura da sempre considerata complessa e di difficile interpretazione quella che sceglie di portare sul grande schermo Schnabel: Vincent Van Gogh. Il regista si concentra sulle ultime esperienze del pittore con un inizio in medias res che trascura completamente la fase olandese e accenna solo brevemente a quella parigina. Del resto una lettura biografica più approfondita avrebbe probabilmente prodotto un film estremamente lungo e compiere una scelta sul materiale da rappresentare era d’obbligo.

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Schnabel si concentra, al principio, sulla necessità di Vincent Van Gogh di dipingere, non si azzarda a raccontare una biografia sulla quale la storia non ha lasciato abbastanza informazioni ma cerca di interpretarla presentando un personaggio border-line che consacra la sua vita all’arte e fa dell’arte una cura. Mette in scena un pittore consapevolmente folle che sa, però, trasformare la sua pazzia:

Molti dicono che sono pazzo ma la follia è una benedizione per l’arte.

Il regista cerca di mostrare lo spazio dagli occhi di Van Gogh o, come ha dichiarato a Venezia, di creare “ l’equivalente di un sentimento che si può avvertire quando si osserva un’opera d’arte”. Lo spettatore si cala nella visione distorta del protagonista grazie a un’inquadratura che presenta il mondo come lo vedrebbe Vincent: la telecamera non è quasi mai stabile e l’immagine a volte è come tagliata in due da una linea di lacrime. La ripresa imita lo stato d’animo. Mostra un’anima irrequieta e agitata che si tranquillizza solo al dipingere o in compagnia di una buona conversazione.

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Le parole però sono anche in grado di trascinare Van Gogh nella disperazione più buia: quando Paul Gauguin gli annuncia la sua partenza, si taglia un orecchio pensando di poter, così, trattenere l’amico. Il tema dell’orecchio è molto insistito ma allo stesso tempo trattato con grazia: in nessuna scena successiva alla mutilazione viene inquadrato, stuzzicando la curiosità del pubblico che con sadico interesse vuole vederlo.

Successivamente Schnabel mostra un Van Gogh che sviluppa l’idea che la sua pittura, considerata sgradevole da molti suoi contemporanei, gli sia stata donata da Dio per le generazioni future, le uniche capaci di capirla e apprezzarla: una pittura sulla soglia dell’eternità.

Quando dipingo smetto di pensare e sento che io sono parte di ogni cosa, che è fuori e dentro di me. Volevo così tanto condividere ciò che vedo, pensavo che un’artista dovesse insegnare come guardare il mondo ma ora questo non lo penso più; adesso riesco solo a pensare al mio rapporto con l’eternità.

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Quello di Julian Schnabel non è il primo tentativo di raccontare la storia di Vincent Van Gogh che è stata oggetto di film di animazione (Loving Vincent) documentari artistici (il primo in bianco e nero nel 1948) libri e addirittura canzoni (Mica Van Gogh – Caparezza). Le premesse erano ottime, il trailer invoglia lo spettatore alla visione con il fascino di un film che si allontana dal documentario biografico e dà un assaggio di una bellissima colonna sonora in un’esplosione di luce, colori e sentimenti, ma il film soddisfa veramente le aspettative?

Non al cento per cento. Si esce dalla sala un po’ titubanti, chiedendosi “ma è andata davvero così?” perché l’unico aspetto della storia del pittore sul quale Schnabel decide di dire la sua è la morte: rifiuta l’ipotesi del suicidio inserendo due ragazzini che, per sbaglio, colpiscono Vincent, provocandone il decesso. Un finale un po’ deludente che spinge il pubblico a cercare su Google maggiori informazioni al riguardo. La ricerca mette in risalto una scelta discutibile del regista: il pittore muore a 37 anni e l’attore che lo interpreta, Willem Dafoe, ne ha 64.

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Nel complesso, però, Schnabel riesce a fornire un quadro incisivo. Il suo Vincent è un artista, come si suol dire, con la A maiuscola e, al centro della produzione, non c’è solo la sua figura ma anche le sue opere, i suoi scritti e le critiche artistiche dell’epoca. L’espediente di usare le lettere scritte e ricevute dal pittore come fonte non è nuovo, moltissimi prima di Schnabel lo hanno utilizzato per parlare di Van Gogh però è comprensibile, data l’estrema bellezza e importanza storiografica di tali documenti.

L’ultimo grande personaggio del film è la natura: una natura che l’artista pensa di capire meglio degli altri e vuole mettere sulla tela per rivelarla al mondo intero, una natura divina che “mostra il legame che unisce tutte le cose, un’energia pulsante che parla con la voce di Dio”. Una concezione che forse necessitava di qualche accenno alla fase olandese per essere compresa appieno ma che rimane comunque centrale nel film.

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Schnabel offre la sua personale e artistica opinione sulla vita e sull’identità creativa di Vincent Van Gogh. Un’interpretazione concepita da un regista che è anche pittore e che, evidentemente, apprezza e stima il protagonista del suo film. Un omaggio, emozionante e profondo, a un artista che ha raggiunto la soglia dell’eternità e, oggi possiamo affermare, ha aperto la porta ed è entrato.

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