Clint Eastwood dirige The Mule (2018).
Quasi novant’anni e per tutte le due ore di film Clint Eastwood regge ancora il confronto con le pellicole precedenti; né un segno di stanchezza per il vecchio e oramai “saggio” eroe di mille storie, racconti vorrei chiamarli, di un’America destinata ad essere descritta solamente con tonalità spente, grigie e oscure.
Nonostante l’appoggio alla campagna politica di Donald Trump, Eastwood vede, e ha sempre visto, la società odierna, quella statunitense soprattutto, come caduta in un baratro gelido dal quale è difficile, ma pur comunque possibile, intravedere una remota rinascita. Particolare che già si denota negli ultimi film, soprattutto in quelli dove, alle grandi biografie, prende posto la quotidianità del comune uomo americano intrappolato in un mondo diverso, in un’economia che sembra andare a rotoli e in società sempre più multiculturali; dove l’incidente razziale è sempre dietro l’angolo.
Tematiche che si riscontrano in Gran Torino, nel premiato Mystic River, in Million Dollar Baby, ecc. Film in cui è l’America dei giorni nostri ad essere protagonista, più del patriottismo viscerale quasi spensierato, ma comunque denunciato, di altre pellicole.
Per The Mule vale forse la stessa regola ed è il racconto di un vecchio disoccupato ad attirare l’attenzione del regista.
Un uomo vissuto, con problemi familiari alle spalle e costretto a chiudere la sua attività di fioraio, diventa infatti un corriere per il cartello. Insospettabile. Mai una multa, cinquant’anni di esperienza sulla strada e tanta voglia di racimolare qualche soldo in più, spingono l’anziano a mettersi in affari con un potente narcotrafficante messicano, che per buona parte del film non conosce.
Il Pick-Up torna ad essere il suo ufficio e nell’assoluta convinzione di non sbirciare mai il contenuto di ciò che sta trasportando, inizia un’avventura malavitosa più grande di lui. Egli è comunque un individuo insospettabile, e resterà tale fino a quando l’agente dell’FBI Colin Bates (Bradley Cooper) non inizia a ad avere dei dubbi sull’identità del misterioso corriere.
In un contesto di quasi sottile denuncia nei confronti della politica di Trump e della situazione sociale venutasi a creare negli States da qualche anno a questa parte, la poetica violenta di Eastwood riesce a colpire nel profondo. La storia del fioraio disposto a tutto pur di sopravvivere, e con il suo fare quasi disinvolto, usa il nuovo mestiere anche come pretesto per riavvicinarsi alla famiglia che aveva perduto. In qualche modo riesce a rientrare nella vita della ex moglie e di sua figlia.
Per quanto riguarda i rapporti di famiglia, che in Gran Torino si spezzano completamente dando più importanza e più affetto nei confronti di una famiglia di etnia Hmong, qui avviene il contrario. Non manca nemmeno il ritorno ad una tematica più drammatica come quella dell’immigrazione e della diversità.
Il giro d’affari con gente che non scherza, lo mettono comunque nella posizione di poter instaurare con loro un rapporto molto più umano di quanto non si possa immaginare in questo momento. La scena alla tavola calda con i due messicani –scagnozzi del boss Laton (Andy Garcia), che vengono avvicinati da un poliziotto, il quale vede in loro un pericolo perché non americani, potrebbe essere visto come un cazzotto a quel muro che sta allontanando due paesi da sempre attaccati e legati –sia con tutte le loro infinite differenze e problematiche. Infatti, il vecchio Earl prende le difese dei due uomini e in un certo senso è lo stesso Eastwood a prendere le distanze dal pugno di ferro con il quale il presidente degli Stati Uniti sta governando. In fondo tutta questa fiducia in Trump non c’è o pare essere leggermente scemata.
C’è comunque quella sottile aria di gelido dramma che Clint si porta appresso e la rinascita dell’uomo americano sembra ripartire dal basso dopo aver toccato il fondo, ma senza piegarsi mai veramente. Biografia poco mascherata, da romanzo ben agghindato, sulla vicenda vera di Earl Stone. È sufficiente il volto essiccato di Eastwood e la fredda recitazione a dare alla storia una lenta suspense che a poco a poco si trasforma in un finale probabilmente scontato, ma ricco di un sentimento profondo e ben delineato.
Con il dramma del vecchio Stone, il regista racconta ancora una volta un pezzo di America, con la sua unica e riconoscibile maniera narrativa.
Tuttavia, non bisogna confondere delle belle immagini di amicizia o di presunta simpatia -quella che Earl nutre nei confronti di alcuni uomini del cartello, per un messaggio da inviare a tutta l’America. La rivalsa che chiude l’opera non è da intendersi né come comunitaria, di unione, né sociale. Si tratta quindi di una rivalsa personale, come la stessa storia che Eastwood si trova a dirigere e interpretare.
È un racconto di vita americana ma essenzialmente personale. Eastwood veste i panni del corriere Stone ma per un puro sfizio, perché, effettivamente, la parte gli calza a pennello. Il poliziesco e così come alcune battute, o i grugni che si scorgono sulla faccia scavata del protagonista fanno tutti parte del modelli standard che il buon Clint usa per le sue opere; che ormai da qualche anno sono tutti incentrati sul tema di questa senilità che, sebbene inevitabile, è sempre un po’ dura da digerire.
Ed ecco quindi che Earl, assieme a quella dell’essere umano probo, ha una doppia natura, quella di non volersi permettere di finire in povertà, quella di stare al centro dell’attenzione sempre, riappropriandosi anche dell’affetto dei familiari trascurati per molti anni. Forse è per questo che accetta quei viaggi, carico di droga senza mai protestare, sicuro di avere alla fin fine una fetta di capitale.
Tra le cose positive, c’è comunque la certezza di assistere a un buon film in puro stile Eastwood. L’Eastwood che tutti conosciamo; meno scontroso, data la vecchiaia, ma sempre sul pezzo.
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