27 febbraio 2019
Io, Ema e Leo. Tre umbri dispersi per le strade di Genova. Perdiamo un po’ di tempo girovagando per la città. Lo ritroviamo, il tempo, in Via del Campo, tra la targa in memoria di Faber e una sua citazione, incisa su di un muro a colpi di spray.
Una breve sosta sulle panchine del porto e ci dirigiamo verso il teatro, nel quartiere di Sampierdarena. L’obbiettivo? Vedere Tango del calcio di rigore, uno spettacolo sul rapporto tra calcio e potere, di Giorgio Gallione, con Neri Marcorè, Ugo Dighero, Rosanna Naddeo, Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto. E provare a scriverci qualcosa tutti insieme, loro gli esperti di calcio, io il malato di spettacoli.
All’ingresso del Gustavo Modena ci concediamo un caffè e qualche pizzetta. Poi l’allontanarsi degli altri ospiti ci fa sospettare che sia ora di entrare in sala. La solita fila, il solito biglietto strappato, il solito… No, non è per niente il solito teatro. Tant’è che mi fermo a raccogliere la mascella caduta per terra. A onor del vero mi succede spesso, è difficile trovarne uno che non mi appassioni. Ma il Modena ha qualcosa di particolare. Quel lampadario appeso al soffitto a trompe-l’oeil, neanche troppo sfarzoso. Quel gioco di colori tra il bianco degli stucchi e il rosso del sipario e delle poltrone, tipico della struttura all’italiana. Il tutto speziato da un odore di modernità – il complesso è stato restaurato nel 1997.
Qualche foto, qualche chiacchiera, poi spengo il cellulare e lo spettacolo comincia. All’apertura del sipario compaiono gli attori. Immobili, tutti con indosso pantaloni e giacca neri, camicia bianca e panciotto dalla fantasia quasi cubista. Soltanto due di loro indossano delle maschere bianche con degli esagoni neri disegnati sul cranio, a ricordare un pallone da calcio. Apre le danze Marcorè, con un prologo in spagnolo tanto suggestivo quanto incomprensibile, almeno per me. Probabilmente non è fatto per essere capito, ma per dare agli spettatori un primo assaggio dell’atmosfera latino-americana che gusteranno per tutto il resto della narrazione. Si tratta, infatti, di un racconto a più voci: il testo è unitario, ma gli interpreti si passano la parola di continuo, insieme a un vecchio pallone di cuoio. Iniziano così a parlarci della storia del ’78 argentino, più precisamente dei retroscena riguardanti la finale del Mundial, giocata il 25 giugno all’Estadio Monumental di Buenos Aires e che vide i padroni di casa sconfiggere gli avversari olandesi. Una vittoria fortemente voluta, oltre che ben organizzata, dal dittatore Jorge Rafael Videla, al potere dal 1976. In quell’occasione la popolazione argentina dimenticò, almeno per un giorno, le repressioni del regime e i tremendi “voli della morte”, che ovviamente ripresero con regolarità il giorno successivo. Il tutto nel quasi totale silenzio della stampa mondiale, che, in buona o in cattiva fede, ignorò i crimini di Videla.
Queste e altre vicende legate al rapporto tra calcio e politica sono raccontate da un quarantenne che all’epoca aveva dodici anni e che utilizza lo sguardo del bambino di allora per narrarci favole di “futbol” tra il verosimile e l’immaginario. Il tutto in uno spazio scenico che è quanto di meglio potessi aspettarmi da un regista come Gallione: abbastanza astratto da attivarmi l’immaginazione, non troppo perché io mi perda. Il pavimento (non lo sappiamo, ma ce lo dirà lui nell’intervista) è coperto da un tappeto-specchio che illumina gli attori dal basso. Il fondale, che chiama «materico», ricorda le plastiche bruciate di Burri. Mi sembra di sentirlo, ruvido sotto i polpastrelli delle dita. E capace, a seconda dell’illuminazione, di evocare ora un cielo, ora un telo imbrattato di sangue, nella scena che vede protagonista una delle Madri di Plaza de Mayo.
Lo spettacolo si fa sempre più dinamico ed evolutivo. Sulla scena ci sono infatti alcune sedie e tavoli neri, che gli attori spostano per creare di volta in volta atmosfere diverse. Inizialmente si vedono anche dei giganteschi bambù, che poi scompariranno verso l’alto per lasciare il posto a dei filari di lampadine. Tutti questi cambi di scenografia potrebbero darvi l’impressione che il regista voglia confondere il pubblico… ma non è così, non a mio parere, almeno. Negli spettacoli di Gallione gli elementi scenografici hanno spesso una funzione evocativa: sono delle “finestre” che permettono agli interpreti di variare dal tema principale e di dare ritmo alla narrazione. Ad esempio, basta disporre sedie e tavolini in maniera diversa, aggiungere due bicchieri e una bottiglia e il gioco è fatto: capisco che siamo in un bar, che lì c’è il bancone e che Dighero è il proprietario. Ma il gioco non si ferma qui. In scene come questa gli attori compiono un passo ulteriore rispetto al racconto principale. Prestano cioè la loro voce a un dato personaggio, accendendolo e spegnendolo come una lampadina nel giro di poche battute, per rientrare poi nel loro ruolo di narratori. In altre parole aprono e chiudono le virgolette del disse che: “…” senza nasconderle al pubblico. Riescono così sia a garantire la continuità del racconto, sia a evocare personaggi dalla forte carica emotiva che, con frasi brevi ma potenti, si imprimono nella mia memoria di spettatore.
Così come impresse rimangono le musiche, canzoni latino-americane nate per voci femminili e qui riadattate, per nulla secondarie in uno spettacolo giocato tutto sui tempi del tango. Il loro ruolo è da una parte quello di scandire il ritmo della rappresentazione, dall’altra di colorarla di toni ora giocosi e farseschi, ora cupi, come nel caso di Gracias a la vida, composta dalla cilena Violeta Parra nel 1966, interpretata dalla Naddeo con commovente intensità.
Si tratta nel complesso di una “fiaba” poetica e coinvolgente, capace di svelare anche allo spettatore poco interessato al calcio, tipo me, come questo sport sia spesso influenzato, alcune volte suo malgrado, altre no, dalle macchinazioni della politica.
Ma dei dubbi rimangono aperti: cosa significano le due maschere gemelle a forma di pallone?; e quel telone di plastica che a un tratto inonda dall’alto la scena? Domande che, dice Gallione, è giusto lasciare in sospeso. Lui ha la sua risposta, io ho la mia… voi che leggete e, spero, vedrete lo spettacolo ne avrete un’altra ancora.
Foto di Giulia Ferrando
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