Abbiamo intervistato Filippo Biagianti, regista del cortometraggio La Camicia Di Basilio, uno dei sei finalisti per la categoria Best Documentary del Malatesta Short Film festival.
L’opera ruota attorno alle memorie di Basilio, un novantaseienne dell’entroterra sardo. Le parole pronunciate dall’anziano sono accompagnate da immagini di un paese devastato, abbandonato e lasciato in rovina, dentro al quale il regista si muove alla ricerca dei ricordi di Basilio. Tenta, attraverso magnifiche e studiate inquadrature, di riprodurre un’atmosfera di sogno, di memoria sbiadita, accentuata dalla scelta del bianco e nero. Ma i ricordi di Basilio non sono scoloriti, racconta con esattezza gli avvenimenti che hanno segnato la sua infanzia: a partire dall’incontro con Mussolini, va a ritroso raccontando la povertà e la violenza ma anche la generosità di un’epoca complessa con cui la maggior parte degli anziani del nostro paese ha dovuto fare i conti. Ascoltare Basilio fa pensare ai nonni di tutte le regioni, il suo racconto non è soltanto sospeso nel tempo ma anche nello spazio, ricorda al pubblico che l’Italia non è stata sempre come oggi: c’è stata la guerra, la rovina, la fame e, tutto questo, è ancora lì, nel cuore di chi l’ha vissuto.
Lei è sardo? No, mia moglie. In realtà il racconto di Basilio fa parte di un progetto più grande, di un’intervista che dura molto di più. Io ero rimasto molto colpito dal racconto della camicia regalata a Basilio dalla maestra: un fatto che, a distanza di così tanti anni, lo fa ancora piangere, perché gli ricorda la dignità che l’insegnante era stata capace di restituirgli, in quella classe dove lui era il più povero. Ho deciso, a partire da questo ricordo, di girarci un documentario attorno. Ripeto che però fa tutto parte di un progetto più grande che spero di portare a termine; abbiamo fatto una dozzina di interviste a dodici centenari sardi sui loro sogni, su quello che loro sognano adesso che hanno cent’anni, o quasi.
Quindi, potremmo dire, non è stato il cortometraggio a scegliere il protagonista ma il cortometraggio si è creato attorno al personaggio? Si, io ho conosciuto Basilio perché la persona con cui sto facendo questo lavoro, Alessandro Coni, proviene da quella zona e fa il dottore. Ha una sorta di canale preferenziale per comunicare con le persone del posto, è molto ben voluto. Spesso queste persone hanno molta voglia e bisogno di condividere le loro esperienze, e spesso alla gente non interessa, anche se, in realtà, in Sardegna la figura dell’anziano è tenuta in gran conto. Però, così, hanno avuto occasione di stare un intero pomeriggio, accompagnati da una persona che li conosce, ad aprirsi e condividere la memoria dei loro vissuti a qualcuno veramente interessato.
Per quanto riguarda la fotografia, le immagini del paese in rovina come sono nate? Sono frutto di una ricerca, di un’esplorazione dei luoghi? Si. Non è il primo lavoro che faccio su questo tema, è da molti anni che cerco di documentare la memoria della civiltà contadina sia nel centro Italia che, grazie agli amici e a mia moglie, in Sardegna. Una documentazione che cerco di fare partendo da racconti che nascono per caso, conversazioni che possono portare a delle cose bellissime a partire da un semplice dialogo. Le storie non sono sempre interessanti, ci sono anche anziani egocentrici che parlano molto dei loro successi e non si creano momenti così intensi e particolari, o tragici, come quelli del racconto di Basilio. Dai ricordi più interessanti cerco di creare un racconto inserendo delle immagini, però, provo a far si che tali immagini non assecondino la narrazione ma ne diano delle suggestioni. Ad esempio, la scena in cui Basilio racconta del litigio della madre e del padre.. avevo bisogno di trovare qualcosa di fastidioso, poco piacevole, e sono andato a cercare qualcosa che me lo rappresentasse visivamente e ho trovato il nido di vespe con il loro molesto ronzio. Voglio cercare di giocare con queste suggestioni per ricreare un vissuto attraverso delle immagini che devono essere sospese nel tempo, come se fossero veri e propri ricordi. È un tentativo di far rivivere delle storie attraverso delle immagini che appartengano anche al nostro quotidiano, che possiamo trovare nelle case di campagna. Ho voluto camminare nelle rovine per rappresentare la memoria dimenticata di queste persone.
Per quanto riguarda il riferimento alla dittatura, ha un significato specifico? Anche il titolo “la camicia di Basilio” sembrava alludere al fascismo ma poi si trasforma in un ricordo di tutt’altro tipo, perché allora il documentario si apre con il racconto dell’incontro con Mussolini? Si può pensare che sia una parte scollegata dal resto della storia, è vero, ma non è così. Basilio ha iniziato raccontarci la sua vita proprio da quel momento; quando a 14 anni va a lavorare nelle miniere di carbone e incontra Mussolini. Mussolini si è presentato in Sardegna quando hanno aperto le miniere e poi 3 anni dopo per chiedere ulteriori sforzi ai lavoratori per portare avanti una guerra ormai persa. Basilio racconta che Mussolini aveva dato 14 giorni di ferie a tutti i lavoratori per averlo accolto e che tutti ne erano stati entusiasti e grati. È una parte del racconto importante perché prima di tutto mi permette di inserire una datazione, far capire in che epoca Basilio ha trascorso parte della sua giovinezza e poi perché ti fa capire che è tutto un cortocircuito, le cose non sono cambiate: ancora crediamo alle favolette dei potenti. Tutti erano felici quel giorno in quel primo racconto di Basilio ma poi continua a raccontare la sua vita procedendo all’indietro ed è una vita di stenti e povertà estrema. Anche il titolo è un po’ forviante perché il pubblico può pensare che Basilio torni a parlare della dittatura ma in realtà la camicia non rappresenta le false promesse degli uomini di potere ma le azioni della gente comune, della maestra che gli compra la camicia perché non può permettersela.
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