Ho in mano due pezzetti di carta. Il primo è molto bello esteticamente, colorato, i caratteri delle lettere ben curati: «PUEBLO – giovedì 10 gennaio 2019 – fila I posto 20 – Teatro Morlacchi – Perugia». Il secondo, più sobrio, assomiglia a uno scontrino piuttosto che al biglietto di uno spettacolo. Ed è di una semplicità che per me rasenta la poesia: «PUEBLO – 22 gennaio 2019 – Teatro Subasio – Spello». Il numero del posto scritto a mano: «B6».
Il Morlacchi è uno dei più bei teatri d’Italia. Affreschi colorati, stucchi dorati, spazi amplissimi… sedie un po’ scomode. È qui che ho avuto la possibilità di vedere lo spettacolo di Ascanio Celestini e di parlargli di persona per la prima volta, in occasione di uno degli incontri con gli attori organizzati ogni anno dal Teatro Stabile dell’Umbria. È qui che ho trovato il coraggio necessario per presentarmi e chiedergli un’intervista.
È al Subasio di Spello che ci siamo dati appuntamento per effettuarla. E ne sono grato al destino. È uno dei teatri più semplici d’Italia. Alcuni ritratti di poeti e di compositori, pochi stucchi bianchi che giocano con il rosso dei palchetti e delle sedie – peraltro molto comode -, l’atmosfera luminosa della sala che contrasta con la cupezza della scena, del palco marrone scuro e delle quinte e del fondale neri. Un luogo che per me ha il sapore di casa. È su queste assi di legno che ho cominciato a recitare. Ne ricordo la consistenza, il profumo, persino il sapore…
Rieccomi qui, oggi, a vedere Pueblo per la seconda volta. L’appuntamento con Ascanio è per prima dello spettacolo. Arrivo in anticipo e lui mi riceve subito. Mi viene incontro con i suoi capelli lunghi e quel pizzetto che, mentre parliamo, continua a torturare con le mani. Solo ora mi accorgo dei suoi occhi azzurro cereo… Mi sento ancora un po’ in imbarazzo, non fosse altro per quel tu che lui si ostina a chiedermi di dargli e che a me viene ancora da sostituire con il pauroso lei.
Ma il teatro è magico, può infuocare gli animi, ma anche tranquillizzarli. Ci sediamo nel foyer, vicino al bar. Registratore alla mano, domande poggiate sulle ginocchia da bravo studentello, prendo un bel respiro e inizio l’intervista.
Pueblo è il secondo capitolo della trilogia iniziata con Laika. In cosa consiste questo lavoro?
“Laika nasce durante la scrittura del film Viva la sposa, che racconta del quartiere dove mio padre è nato e ha vissuto per una parte della sua vita, il Quadraro, a Roma. Quando lui era ragazzo quella era estrema periferia. Adesso non lo è più perché la città è diventata più grande, anzi, pian piano sta diventando un quartiere dove vanno a vivere gli studenti, gli architetti. Lo spettacolo racconta le persone che vivono appunto in periferia, tra un condominio popolare e due parcheggi, quello di un supermercato e quello di un magazzino dove lavorano dei facchini africani. I barboni, l’alcolizzato, il facchino nero, l’ex prostituta che ha aperto un bar, tutti quei tipi umani dei quali sentiamo parlare quando succede qualcosa di scandaloso, quando uno di loro muore, si ammazza, viene ritrovato per strada. Fino a poco prima la loro vita era fatta di una quotidianità, magari differente da quella del ricco borghese del centro città o del padrone del giornale sul quale poi finisce l’articolo che parla di loro, ma pur sempre una quotidianità. Anzi, molto spesso sono tipi umani che risultano invisibili alla maggior parte delle persone. Parliamo degli immigrati e in Italia c’è la percezione che ce ne siano molti di più di quelli che sono in realtà, ma noi ne vediamo molti di meno. Questo perché la maggior parte di loro sono poveri e passano il tempo a nascondersi nei posti dove vivono, spesso ammassati, o sono invisibili anche nei luoghi in cui lavorano. Però ad un certo punto diventano visibili perché se ne parla, perché la loro vita si trasforma in una notizia. Ecco, a me interessava raccontare qualcosa della vita di queste persone “ai margini” – non si capisce ai margini di cosa, di qualcosa che è definito da qualcuno che si sentirebbe al centro della storia – prima che diventino un fatto di cronaca. Questo è successo in Laika. Contemporaneamente al suo debutto in versione francese è nato Pueblo, che abbiamo portato in scena in Francia e in Belgio con il titolo di Dépaysement. Quindi questi due spettacoli sono cresciuti insieme, tanto che i racconti che non c’erano nell’uno sono finiti nell’altro e in entrambi ritornano gli stessi personaggi e tipi: dove c’è un barbone africano in Laika,c’è una barbona italiana in Pueblo; dove una prostituta anziana, un’altra che ha aperto un bar, e via discorrendo. La terza parte di questa trilogia probabilmente avrà come titolo I draghi e racconterà sempre quel mondo lì. Nella mia idea la saga non è un solo racconto, ma un solo insieme di racconti. Un po’ come se fossero tante storie che hanno una loro autonomia, come accade per quelle all’interno dei singoli spettacoli, ma che acquistano un significato diverso se entrano in relazione.”
In Pueblo utilizzi un punto di vista particolare, quello di un personaggio interno alla storia.
“Sì, quasi sempre nei miei testi non soltanto il personaggio che narra è interno alla storia, ma molto spesso la racconta ad un altro personaggio. È successo praticamente in tutti gli spettacoli: in Radio Clandestina un uomo racconta ad un’anziana analfabeta; il protagonista di Fabbrica scrive una lettera alla madre; quello di Pro patria sta scrivendo un discorso e parla con Mazzini; in Discorso alla nazione il dittatore parla al popolo. Per me è molto importante che ci sia questa relazione all’interno della storia, che non sia cioè un racconto fatto direttamente al pubblico, il che risulterebbe una cosa molto falsa: lo spettatore sta lì, ascolta, non risponde, viene trattato un po’ come una sedia vuota. Invece mi sembra molto più interessante che i personaggi, anche quando non dialogano, abbiano comunque la possibilità di farlo. Sia in Laika che in Pueblo il personaggio di Pietro risponde al narratore, seppur poche volte e per brevi battute, e sempre con la voce di qualcun altro: quella di Alba Rohrwacher nel primo, quella di mio figlio nel secondo. Però c’è, lo vediamo.”
Una volta, parlando di Edipo, dicevi che nelle tue storie c’è sempre una menomazione che distanzia un personaggio dall’insieme.
“In Edipo chiaramente la menomazione sta nel fatto di essere zoppo, cieco e anche un po’ sfigato… È una gran brava persona che cerca di fare il bene in tutti i modi, in maniera eroica, e alla fine sbaglia. Nel racconto c’è quasi sempre una serie di elementi visibili. Non nel senso che se parlo del cavaliere devo vedere davvero sulla scena quello che va a cavallo. Questo mette lo spettatore in pausa, non c’è niente da immaginare, deve solo prendere atto di quello che ha davanti. Succede, ad esempio, nella pubblicità: non devo immaginareciòche mi sta comunicando, devo solo constatare quella è l’acqua più buona, che quello è il pane migliore. Nella pubblicità del mulino bianco, in cui recitano degli attori che fanno cinema, lei parla di questi pezzi di pane con le gocce di cioccolato, e li vediamo mentre ne parla. Poi spiega che “mio padre diceva di averli inventati per me, perché i miei occhi sono come queste gocce di cioccolato”, e vediamo i suoi occhi e lei che abbraccia il partner. In questo modo lo spettatore non deve fare nessuna fatica, deve prendere atto di quello che sente e che vede e basta. Invece nel racconto, nella fiaba o a teatro è interessante l’evocazione: io seguo la storia e non vedo tanto e soltanto quello che ho davanti in quel momento e che sta sul palcoscenico, ma vedo soprattutto quello che immagino. Faccio un lavoro di produzione di immagini. Questo accade anche all’attore che sta in scena, che per stare sul campo di battaglia – eppure sta nel teatro di Spello – deve immaginarselo. Altrimenti se non se lo immagina lui non lo farà neanche lo spettatore e ci sarebbe solo qualcuno a chiacchierare su quattro assi di legno. La menomazione, l’elemento dissonante o perturbante aiuta a stimolare la fantasia. Se io dico: “Il re con la corona in testa andava a cavallo”, ho ben poco da immaginare. Ma se dico: “Il re senza corona galoppava in groppa alla somara”, già questi elementi mi danno la possibilità di visualizzarlo. Scosto qualcosa che ho già visto e rivisto mille volte e mescolo invece altri elementi che conosco: il somaro, e penso alla somara (non capisco bene che differenza ci sia, ma me la immagino); il re, ma senza corona, di cui quindi immagino la testa, e su di un animale non nobile. Così incomincio a produrre immagini. In Pro patria, il libro in particolare ma anche lo spettacolo che c’è stato prima e che si chiama Appunti per un film sulla lotta di classe, il personaggio Marinella ha il labbro leporino. L’altro personaggio è innamorato di lei e quindi noi sentiamo questa dissonanza.”
Secondo te quale differenza c’è tra ascoltare un tuo spettacolo in radio e il vederlo a teatro? Cambia il modo di evocare la storia?
“Il teatro per me è soprattutto quello che viene fatto sul palco. È la sua forza, più ancora che nel passato. Parlo proprio di cento o duecento anni fa, quando eravamo più abituati allo spettacolo dal vivo: non c’era la radio, non c’era la televisione, non c’era il cinema, non c’era la rete… C’erano i libri, il disegno, quello che succedeva in chiesa con le immagini sacre. Gli analfabeti non sapevano leggere, ma sapevano dell’esistenza delle parole scritte, quindi pian piano associavano quelle parole alle immagini. Tanto più perché erano analfabeti, la parola detta “benediva” e “malediva”, aveva una forza enorme. Oggi ha perso molto rispetto alla parola scritta, che sta lì anche se nessuno la dice, mentre quella detta deve essere appunto detta, quindi diventa più debole. Nel racconto di tradizione orale Sperso per il mondo, che Calvino ha raccolto e pubblicato nella raccolta Fiabe italiane, il personaggio di Peppi quando parla con quelli della sua classe sociale si dà la mano, si mettono d’accordo dandosi la mano. È questo che significa “dare la propria parola”. Quando invece deve fare l’accordo con gli aristocratici si scrive un contratto, perché la parola detta non vale niente e lui deve cercare di mettersi al loro livello. In teatro la parola è detta. Però se è detta con la presenza del corpo lo spettatore non si confronta solamente con qualcosa che arriva da un mezzo esterno, ma vive una tensione continua: da una parte l’evocazione, cioè il fatto di sapere che c’è una finzione, visto che l’attore conosce la storia fino alla fine; dall’altra il fatto di sapere che c’è anche una verità, che l’attore sta veramente lì davanti a lui. Come nel nostro caso, siamo partiti da Roma, abbiamo parcheggiato qua davanti, abbiamo scaricato la scenografia, stasera andremo a mangiare da qualche parte, a dormire da un’altra… Per cui anche se l’attore in qualche maniera si nasconde, non interpreta il personaggio, la sua presenza fisica ricorda costantemente allo spettatore che sia lui che l’attore in scena stanno lì, in quel momento, in carne ed ossa, in quel tempo. Questo ha una forza diversa rispetto alla radio, alla televisione o al cinema.”
Qual è il ruolo del teatro, e in particolare del tuo teatro, in una realtà in cui i media che ci raccontano i fatti del mondo ce li fanno sentire vicini, ma allo stesso tempo ce ne distanziano emotivamente?
“Le storie raccontate dai mezzi di comunicazione finiscono in questa spirale semantica per cui tutto diventa la stessa cosa. Io vedo il telegiornale e la prima notizia è l’Italia che vince il campionato, la seconda la dichiarazione del presidente, la terza una donna uccisa o un bambino morto in un pozzo, poi i campionati di nuoto, uno spettacolo teatrale, un film uscito al cinema… E tutto questo è comunicato dalla stessa fonte, esce dallo stesso oggetto, viene detto più o meno dalle stesse persone e più o meno allo stesso modo, magari anche con una musica e un montaggio. Infatti, il linguaggio della televisione non è il racconto del bambino che finisce nel pozzo, ma è fatto dal montaggio, dalla musica, dallo stacco tra le immagini con sotto la voce del giornalista e il giornalista che parla col microfono in mano. Ad esempio, qualche giorno fa c’è stato il caso un scontro fra due treni su di un ponte in Danimarca, ed è stato raccontato “dalla nostra inviata a Berlino”… Nemmeno lei era lì, però vediamo le immagini della Danimarca, del ponte divelto. Ma anche quando una persona sta veramente in un teatro di guerra tutto finisce per diventare la stessa cosa, perché viene montato e rimescolato con quello che è successo prima. Una volta in Italia c’era un solo canale, poi sono diventati due, poi tre, poi molti, e adesso sono un numero incalcolabile, puoi vedere i canali di tutto il mondo. La prima volta che con un’applicazione ho cercato Radio 3 ci ho messo un po’ per trovarla, perché di “Radio 3” nel mondo ce ne sono a centinaia. L’idea che ci sia tutto questo e tutto insieme alla fine rende tutte le cose uguali. Con la rete questo si è moltiplicato. Da una parte hai la sensazione di stare al centro del mondo, ti dici “se vuoi le cose le sai” – che poi non è vero, perché sapere tutto è impossibile, non posso sapere più di due o tre cose al giorno, invece ne accadono a centinaia. Dall’altra, emotivamente sei a casa tua davanti al computer o sull’autobus con lo smartphone in mano e le cuffiette. Quindi non te ne frega niente, perché stai tranquillo dove stai, mentre a livello di conoscenza sai tutto. È straordinario come qualche giorno fa Luigi Di Maio continuasse ad insistere sul fatto che sia più importante parlare del franco usato in Africa piuttosto che dei morti in mare, di cui ci può dispiacere, ma è più importante «cercare anche le cause». Però nel frattempo questi muoiono per davvero. E tu dici “ci sono cento persone in mezzo al mare, chiudiamo i porti e le lasciamo lì, altrimenti ne vengono molti di più”. Quindi sostanzialmente li lasciamo morire, così come lasciamo morire molti altri di cui non sappiamo nulla. Però se tu stessi lì con quelle persone? Un italiano che ha fatto il cuoco sulla Open Arms diceva: “Io quando vedevo gli operatori tirare fuori le persone dal mare per me erano dei supereroi. Poi quando siamo arrivati a Malta ci hanno fatto mettere in disparte, per non disturbare i turisti; in Italia addirittura sono salite le guardie”. Se stai lì la percezione è un’altra: vedi le persone che muoiono e che si salvano la vita. Una donna è stata salvata dal mare. L’hanno fatta lavare e le hanno anche messo lo smalto alle unghie, per darle un po’ di speranza, per farla sentire una persona. Questo per la comunicazione in Italia è stato controproducente: la gente ha pensato “ma quella sta bene, ha pure lo smalto”. Questo perché noi vediamo la notizia in televisione o sullo smartphone e giudichiamo in maniera emotivamente distante, però ci sentiamo in diritto di farlo perché ce l’abbiamo lì davanti e pensiamo di sapere veramente quello che è successo. Nei commenti sui blog, sulle pagine Facebook, chiunque può commentare chiunque. Un linguista americano come Noam Chomsky scrive qualcosa e un qualsiasi cretino pensa di poterlo mettere in contraddizione. Perché la rete ha reso tutto democratico, tutti allo stesso livello, ma Chomsky non sta allo stesso livello di un qualsiasi utente, il quale magari è un ottimo elettricista o fa dei mosaici meravigliosi… Ma se stessero veramente uno di fronte all’altro capirebbero che provengono da due mondi diversi e che stanno portando avanti due discorsi differenti. Invece nella rete tutto diventa uguale, una grande marmellata spalmata su di una tovaglia. Anzi, molte marmellate di sapori diversi mescolate insieme, tanto che alla fine nessuna ha più il sapore originario e tu mangi la stessa pappa da questa e dall’altra parte del mondo.”
Per creare uno spettacolo solitamente mescoli del materiale che deriva dalle interviste fatte ad altre persone con altro di tua invenzione. Qual è il rapporto tra le parti “fedeli” e quelle immaginative?
“A me l’intervista serve non soltanto per conoscere un ambiente, un tipo umano, ma anche per avere io un’esperienza diretta. Mi serve per conoscere quella determinata persona, non tanto quello che lui rappresenta. Tant’è vero che a me non interessa portare in scena la storia di un personaggio o di un evento in maniera precisa. Ciò non significa che nello spettacolo io menta, o quando l’ho fatto è stato in maniera esplicita: in Scemo di guerra arrivano i Russi a Roma, invece che gli Americani, o addirittura gli Indiani con gli elefanti, ma si capisce che è una finzione. Dunque l’intervista mi serve per conoscere la persona e stare accanto a lei emotivamente, il che è diverso dal leggere degli articoli di giornale o fare un lavoro di ricerca d’archivio, e anche semplicemente per raccogliere degli elementi concreti. Spesso mi è capitato di prendere degli elementi, dei pezzi di una storia, e di metterli in un contesto completamente diverso. Perché se io immagino una storia e poi faccio una ricerca magari faccio un lavoro molto preciso e dettagliato, nel quale però tutto torna. Invece in una storia concreta alcune cose non tornano. Quando raccontavo Scemo di guerra qualcuno mi diceva: “Non è possibile che tuo padre stesse su un albero a raccogliere pigne, abbia visto il tedesco e gli abbia pisciato in testa, perché lui era un bambino e quello era un tedesco pericoloso e armato”. Tralasciando il fatto che la storia è vera sul serio, credo che lo sia ancora di più in quanto racconta qualcosa che noi non racconteremmo, perché mette in contraddizione la violenza del tedesco occupante a Roma e la paura non solo degli abitanti, ma in particolare dei bambini. Invece mio padre che racconta di aver pisciato in testa a un tedesco sta raccontando un’altra storia, quella dell’innocenza, dell’ingenuità, della sfrontatezza dei ragazzini che non si rendono conto di quello che sta succedendo. Questo succede in tanti racconti di guerra. Pappagalli verdi, un libro di Gino Strada, racconta delle mine simili a dei giocattoli con cui i bambini vanno a divertirsi, perdendo magari un braccio, una gamba o merendo. E ti chiedi “ma come, questo bambino vive in una situazione di conflitto, nemmeno il padre ha mai vissuto in tempo di pace, figuriamoci lui… come fa a non avere paura della guerra?”. Invece queste storie ti raccontano la quotidianità di chi vive in tempo di conflitto, nel quale non è che combattano e ammazzino dalla mattina alla sera, ogni ora e ogni minuto. Ci sono magari dei lunghi periodi nei quali le persone riescono a fare una vita “normale”, poi vanno al mercato, scoppia una bomba e muoiono in cinquanta. Ma anche in tali condizioni riescono a sopravvivere. In questi giorni, per il 27 gennaio, ci sono stati vari viaggi ad Auschwitz e per l’ennesima volta ci sono tornate anche le sorelle Bucci, Andra e Tatiana, che sono state internate da bambine. Erano state messe in un Kinderblock, un blocco per bambini, dove disegnavano, giocavano, si divertivano. Vivevano anche in una situazione di morte, ma la concepivano come una cosa normale. “Quando nostra madre non venne più a trovarci, noi capimmo che era morta ma non piangemmo”, racconta una delle due sorelle. E mentre lo racconta piange, ma adesso, quand’era bambina no, perché lì morire era una cosa normale. Addirittura raccontano che d’inverno giocavano con le palle di neve insieme agli altri bambini. Come si fa a raccontare Auschwitz coi bambini che giocano? Non va bene, quello è il luogo dove le persone muoiono… Ma non tutte, non contemporaneamente né continuamente dalla mattina alla sera. E riescono a vivere una vita quotidiana, l’essere umano c’è ancora anche in una situazione di sterminio. Per questo, dicevo, a me serve l’intervista, per trovare quell’elemento che apparentemente è in contraddizione con la storia che sto raccontando, ma che in realtà la rende più viva e più sensata perché quella contraddizione è molto concreta.”
Cosa ti ha spinto a incominciare a fare teatro e cosa ti ci tiene oggi?
“Mi ha spinto il fatto che all’università avevo cominciato a studiare antropologia. Mi piaceva quest’idea di un antropologo che non studiasse tanto persone e culture lontane, ma piuttosto la propria cultura attraverso le persone che lo circondano. Per capire anche la propria vita, la propria condizione. E quindi avevo cominciato a fare interviste. Il problema è che quando tu intervisti un contadino, un operaio o un militare che è tornato dalla guerra, la sua storia è forte, è importante, ma dal momento in cui la registri e la trascrivi quella storia muore in qualche maniera. È forte perché c’è la sua voce, la sua presenza, perché quando la racconta lui tu vedi la sua esperienza, ma non per immagini. Quando invece la vai a studiare è un po’ come prendere una persona che cammina per strada, metterla sul tavolo anatomico e incominciare a sezionarla per vedere quali sono gli organi interni. A me invece quelle storie non piacevano tanto per il loro significato scientifico, mi piaceva il momento in cui venivano raccontate nel contesto dell’oralità. Così ho pensato che ci fosse la possibilità di prendere questo aspetto proprio del racconto individuale, della persona che racconta la sua vicenda o del narratore che conosce mille fiabe e canti della tradizione, e di portarlo in un contesto che è differente, basato sulla rappresentazione, ma mantiene ancora qualcosa di orale, che è il teatro.”
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