Il Grande Spirito di Sergio Rubini

Il Grande Spirito – Un western all’ombra dei fumi dell’Ilva

C’è una città del nostro Sud nella quale i sogni e le speranze sembrano praticamente impossibili. Su questa città non incombono solamente i già conosciuti spettri della disoccupazione e della criminalità che affliggono altri luoghi dello Stivale. Su questa città incombe letteralmente la morte.

Su Taranto, da ormai decenni, le polveri del più grande stabilimento di produzione e trasformazione dell’acciaio d’Italia si abbattono sulla popolazione, costretta all’eterna esitazione tra lavoro e salute.

A Taranto, e più precisamente nel quartiere Tamburi, dirimpettaio dell’enorme stabilimento da 15 milioni di metri quadrati, Sergio Rubini ha voluto ambientare la sua storia, Il Grande Spirito.

Il quartiere Tamburi è il classico rione popolare e periferico. Più povero del centro cittadino, con meno opportunità di lavoro, e con una maggiore densità criminale. Tra i suoi palazzoni cerca rifugio Tonino, un rapinatore in fuga dai suoi complici, dopo che, per vendicarsi dei continui insulti, ha cercato il riscatto scappando con il bottino di una rapina.

Tonino, interpretato proprio da Sergio Rubini, trova riparo sul terrazzo di Renato, un uomo che si fa chiamare Cervo Nero in quanto si ritiene un pellerossa. È il Renato-Cervo Nero di Rocco Papaleo il personaggio più interessante di tutta la storia, capace di alternare alla sua fantasia momenti di straordinaria lucidità che spiazzano la superficialità di Tonino.

Il fuggiasco tratta infatti Cervo Nero come un povero scemo, senza curarsi dei traumi del suo passato. Il suo mondo non ha tempo per le fantasie di un bambino di mezza età. L’urgenza del bottino chiama, ma alla chiamata rispondono anche i nemici di Tonino.

Il trailer de Il Grande Spirito

Il Grande Spirito è un meraviglioso film. A prima vista divertente e spensierato, diventa sempre più difficile da digerire. La realtà che ci racconta è infatti disturbante e spesso da nascondere sotto il tappeto.

Bastano le grandi panoramiche che la regia, sempre di Sergio Rubini, dedica all’ex-Ilva. Il suo mastodontico apparato di ciminiere è infatti un protagonista silenzioso ma eloquente del film. È la fabbrica che ha trasformato Renato in un pellerossa. È la fabbrica a scandire da decenni la vita e la morte nella città.

La fabbrica, nonostante produca acciaio e morte, non riesce a produrre abbastanza posti di lavoro, così che nel quartiere la criminalità e il degrado proliferano. Renato è abbandonato quasi a se stesso, e l’unica persona che sembra realmente interessato alla sua salute è Teresa, una inquilina del palazzo con due figli piccoli, costretta dal marito a prostituirsi.

La periferia cittadina diventa così sempre più simile al selvaggio west: un luogo anarchico dove vige la legge del più forte, ma nel quale l’inospitalità della natura e sostituita da quella dell’ambiente urbano.

Taranto è un luogo di frontiera. Non solo al cinema purtroppo.


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