Piazza della Loggia, Brescia

Paragoghè. Depistaggio – Uno spettacolo in cucina

Paragoghè. Depistaggio.

testo e regia Marco Baliani

drammaturgia Maria Maglietta

musiche Mirto Baliani

spazio e luci Lucio Diana

costumi Stefania Cempini

con Valentina Angelini, Silvia Bertini, Francesco Brunori, Caterina del Giudice,  Gianni Giampechini, Eleonora Greco, Carmine Iannaccone, Giacomo Lilliù, Michele Maccaroni, Ludovica Mancini, Nicolò Matricardi, Edoardo Olivucci Vitangeli, Elisa Pesco, Chiara Santarelli, Elena Tonelli, Arianna Vercelli

produzione Marche Teatro

29 maggio 2019,

Perugia

Quest’oggi ti parlo di uno spettacolo particolare: Paragoghè. Depistaggio, di Marco Baliani, in scena dal 23 maggio, anniversario della strage di Capaci, fino al 25. Attore, autore e regista, con lo spettacolo Kohlhaas del 1989 Baliani ha aperto la stagione del cosiddetto teatro di narrazione, uno dei generi teatrali più attivi degli ultimi trent’anni. Nel corso della sua carriera si è occupato spesso di quello che lui chiama «il nostro passato prossimo», la storia recente dell’Italia.

È questo uno spettacolo “deviato”, sotto molti punti di vista. Ad essere deviati sono infatti gli argomenti trattati: i depistaggi, operati dai servizi segreti deviati, durante le indagini riguardanti la serie di stragi che incomincia da quella di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 fino alle stragi del ’93-’94. È deviato il luogo in cui va in scena, il Tribunale di Ancona, che per l’occasione si trasforma in teatro: la prima volta che due luoghi così sacri si fondono in uno solo. È deviato il luogo da cui lo vedo… o, meglio, lo ascolto: la cucina del mio appartamento.

Cosa? Ceccucci, ma ti sei impazzito, mi vuoi far credere di aver sentito l’eco dello spettacolo da Perugia? Calma, calma. È solo che questa volta non ti parlo da spettatore, ma da radioascoltatore. Non avendo potuto assistere dal vivo allo spettacolo, l’ho ascoltato alla radio. Ieri, dalle 23 a mezzanotte, Rai Radio3 ha infatti mandato in onda il programma “Il Teatro di Radio3”, durante il quale Laura Palmieri ha intervistato Baliani. Il regista ha spiegato alcuni aspetti dello spettacolo, di cui sono stati riportati e commentati cinque frammenti. Anche se puoi riascoltare la puntata sui canali Rai, ho creduto fosse interessante farne una trascrizione e fornirtela. Eccola.  

Locandina Paragoghè
La locandina dello spettacolo Paragoghè. Depistaggio di Marco Baliani

LAURA PALMIERI: Torniamo in questa data del 23 maggio a parlare di stragi e dei depistaggi delle tante stragi italiane. Lo spettacolo che tu porti in scena in un tribunale parte proprio da questa parola.

MARCO BALIANI: “Paragoghè” in greco vuol dire “deviazione”, “sviamento”. Il Presidente del Tribunale di Ancona, Giovanni Spinosa ha chiesto a Marche Teatro, che a sua volta lo ha chiesto a me, di mettere in scena uno spettacolo che avesse come focus centrale il depistaggio, coprendo un periodo che va dal ’69, Piazza Fontana, fino alle cosiddette stragi dell’arte del ’94. Il 12 dicembre ricorreranno i cinquant’anni dalla strage di Milano, cinquant’anni senza un processo che ne abbia indicato i mandanti o gli esecutori, cosa che vale anche in molti altri casi. Percorrendo questa strada, il Presidente ci ha chiesto di interpretare il tema del depistaggio, cioè di quello che è accaduto tramite l’insieme di quelle forze oscure che sono i servizi segreti deviati, l’estremismo di destra neofascista e soprattutto la criminalità organizzata, costantemente presenti in tutti questi anni. Il vero miracolo quando finisci questo spettacolo è di renderti conto che questo paese, nonostante tutto, ha degli anticorpi: siamo riusciti ad arrivare ad oggi restando una repubblica quantomeno fondata sulla democrazia, mentre in altri paesi non è accaduto.

LAURA PALMIERI: È infatti giusto ricordare che ci sono ancora tante stragi irrisolte, come dicevi, ma anche moltissime persone che da anni continuano a lavorare per cercare di far luce.

MARCO BALIANI: L’ultima fase di indagine è infatti quella chiamata “Il rapporto Stato-mafia”, che coinvolge la morte di Falcone e Borsellino. Tra l’altro lo spazio in cui agiremo – questa sorta di agorà interno al tribunale che somiglia a un teatro elisabettiano, con tutt’intorno i corridoi rialzati che si affacciano sulla piazza centrale su cui abbiamo allestito un palco – sarà dedicato ai due giudici assassinati. Anche altre aule del tribunale saranno dedicate a persone che sono morte per cercare la verità o quantomeno per denunciarla, come Peppino Impastato.

LAURA PALMIERI: O come Vittorio Salmoni, il magistrato vittima delle leggi razziali durante il fascismo, a cui verrà intitolato lo stesso Palazzo di Giustizia di Ancona. Infatti, questo tuo oratorio civile lo porterete in scena in un tribunale, ed è la prima volta in Italia che questo spazio sacro convive con quello altrettanto sacro del teatro.

MARCO BALIANI: È una cosa molto particolare, così come il fatto che gli attori siano tutti giovani marchigiani, che quindi non erano nati ai tempi delle vicende narrate. Hanno fatto con me, da settembre a oggi, un percorso di formazione sia artistica sia politico culturale: hanno dovuto leggere, conoscere un pezzo della storia italiana che non sapevano, siccome a scuola difficilmente si arriva a parlare degli anni settanta.   

LAURA PALMIERI: E quella di educare è sicuramente una delle funzioni del teatro. Tra l’altro, già dal tuo Corpo di stato, dedicato all’omicidio Moro, ti sei molto occupato della storia del nostro paese.

MARCO BALIANI: Esatto, del nostro passato prossimo. Mi sono preoccupato soprattutto di trasmetterlo ai giovani, cercando di passare il testimone per non limitarmi a un lavoro di estetica.

LAURA PALMIERI: Parliamo ora del testo, che tu hai scritto e di cui hai curato la drammaturgia insieme a Maria Maglietta, con in più le musiche di tuo figlio Mirto Baliani. Da dove siete partiti per costruire questo percorso drammaturgico?

MARCO BALIANI: Abbiamo seguito due strade: una è quella dei documenti, che ci sono serviti come base storica per non dire corbellerie, che però nello spettacolo non è la parte preponderante, altrimenti sarebbe molto noioso; poi c’è il linguaggio di scrittura realizzato con Maria, che parte sempre dal lavoro degli attori. Ognuno di loro portava dei brani e io chiedevo di volta in volta di focalizzarne il nodo durante delle improvvisazioni, dalle quali poi rubavamo quel minuto e mezzo che ci sembrava forte a livello di emozioni e di contenuti, ritrasformandolo in testo. Questa la costruzione della drammaturgia. Voi alla radio sentirete chiaramente le parole, ma i due terzi dello spettacolo è fatto di movimenti e azioni corali molto forti. Ci sono momenti di danza, di corsa, momenti circensi… È un arazzo di immagini, di linguaggi, di situazioni, tenuto insieme da un filo conduttore che è quello storico, ma che nella storia vuole evidenziare le persone. C’è, ad esempio, un momento in cui diamo voce ai pensieri di Falcone un attimo prima che esploda a Capaci.

A questo punto, Baliani introduce il primo frammento dello spettacolo, che comincia con la riproduzione di un reperto storico eccezionale: la registrazione del comizio antifascista tenutosi in piazza della Loggia, a Brescia, poco prima dello scoppio della bomba che causò la morte di otto persone e il ferimento di centodue. Dopo l’esplosione, la voce sconcertata del presidente del sindacato esorta i compagni a mantenere la calma e a ripararsi sotto al palco. Il documento, di forte impatto emotive, si interrompe per lasciare spazio al racconto della strage da parte di alcuni attori. 

ATTORE I: 28 maggio 1974. Piazza della Loggia, Brescia. Durante una manifestazione indetta dai sindacati contro il terrorismo neofascista che da mesi imperversava nella zona con attentati e intimidazioni, esplode una bomba, nascosta proprio sotto le arcate della piazza dove si erano radunati molti manifestanti per ripararsi dalla pioggia. Muoiono otto persone e centodue rimangono ferite. Meno di due ore dopo la strage, un ordine impartito dal vicequestore Aniello Damare fa sì che una squadra di pompieri ripulisca frettolosamente con le autopompe il luogo della strage, spazzando via così indizi, reperti e tracce di esplosivo prima che magistrati o periti possano effettuare sopralluoghi e rilievi.

ATTRICE: Spariscono in seguito anche i reperti prelevati dai corpi dei feriti e dei cadaveri, di fondamentale importanza ai fini dell’indagine. Dopo molti anni di inchieste, depistaggi e processi, vengono riconosciuti colpevoli e condannati quali esecutori materiali alcuni membri del gruppo neofascista Ordine Nuovo: Ermanno Buzzi, subito dopo assassinato in carcere da altri due fascisti per timore che potesse parlare, e Maurizio Tramonte, conosciuto come “fonte Tritone”, informatore neofascista dei servizi segreti italiani. Vengono condannati anche Carlo Digilio, addetto agli esplosivi, Marcello Soffiati, che aveva trasportato l’ordigno. Come mandante viene condannato il dirigente di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi.

ATTORE I: Gli altri imputati, tra cui Delfo Zorzi, rifugiato in Giappone, il generale Francesco Delfino e il fondatore di Ordine Nuovo, Pino Rauti, vengono invece assolti dopo un tortuoso percorso giudiziario. Nelle motivazioni della sentenza di appello della corte di Milano del 10 agosto 2016, si può leggere l’amarezza dei giudici che per tutti questi anni hanno tentato di strappare il velo delle omertà e delle complicità tra parte dei servizi segreti e delle fasce di estrema destra. Queste le loro parole:

ATTRICE: “Questo processo, come altri in materia di stragi, è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato nelle centrali occulte di potere, che hanno supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema e hanno sviato poi l’intervento della magistratura, rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità.

ATTORE I: Visto che, a quarantuno anni dalla strage, a sedere oggi sul banco degli imputati sono solo un ultraottantenne e un non più giovane informatore dei servizi. Mentre altri, parimenti responsabili, hanno da tempo lasciato questo mondo, o anche solo questo paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la malavita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe.”

Gli attori proseguono con dei commenti circa le attività depistatrici, che riescono a infangare la realtà «centrifugando le parole in un unico letamaio».

Viene quindi introdotto il secondo estratto, un monologo in cui una giovane attrice veste i panni di Lilla Natali, una degli 85 morti della strage della stazione di Bologna, 2 agosto 1980. Proprio la brevità del brano, unita al tono volutamente infantile dell’interprete, lo rendono uno dei più commoventi di tutto lo spettacolo.

Mi chiamo Nilla, Nilla Natali. Ho delle grandi sopracciglia, nere, e al collo porto sempre una collana che mi ha regalato mia madre. Mi chiamo Nilla, Nilla Natali. Ho venticinque anni e sono figlia unica. Mi sto per sposare. Ho già comprato i mobili, tutti su misura per la mia cucina. Vivo a Bologna. […] Oggi è il due agosto e finalmente vado in ferie, e Catia è sommersa da scartoffie. “Catia non ti preoccupare, ti aiuto io a fare le buste paga, tanto oggi vado in ferie”. Sono le 10:23 e… ho come la sensazione che il tempo stia rallentando, che tutte quelle persone in stazione vadano a rilento. È stato un attimo, ed io in quell’attimo sono diventata cenere. Mi chiamo Nilla Natali, e sono morta. Mamma! Mamma! Mamma sono morta! C’è qualcuno che può dire a mamma che sono morta? Nilla Natali, venticinque anni. Mi sto per sposare… E sono morta. Mamma. Mamma! C’è qualcuno che può dire a mamma che sono morta?

Segue la narrazione della vicenda di Umberto Mormile, «una delle tante vittime “collaterali” delle stragi». Mormile lavorava come operatore carcerario a Parma e ad Opera, dove organizzava laboratori teatrali per i detenuti. Sul lavoro aveva conosciuto Armida Miserere, poi diventata una delle direttrici carcerarie più brave d’Italia. I due si vogliono sposare, ma l’11 aprile 1990 Umberto viene ucciso dagli spari di tre uomini a bordo di una moto. Cosa aveva scoperto di tanto importante? La risposta è da cercare negli anni di lavoro a Parma, nel cui carcere era rinchiuso il boss della ‘ndrangheta Domenico Papalia.  

Mormile era stato testimone di un viavai di strani personaggi che avevano colloqui riservati con Papalia, facendogli ottenere agevolazioni, persino permessi di uscita. Mormile non ci aveva messo molto a capire che erano uomini dei servizi segreti. E quando poi Papalia gli aveva chiesto di confezionargli un profilo favorevole per ottenere ulteriori agevolazioni in carcere, lui si era rifiutato. Ma non era stato abbastanza accorto. Forse lì gli era sfuggita una frase come che lui simili favori non li poteva fare, non era mica uno… dei servizi. […] Era bastato quell’accenno, insieme al rifiuto di favorire il boss, per far sì che si decretasse la sua condanna a morte.

Dopo l’omicidio, le indagini vengono sviate grazie a dei falsi pentiti, i quali affermano che fosse Mormile il corrotto, che il rifiuto a Papalia fosse dovuto al fatto che la cifra propostagli dal boss per i suoi favori non era soddisfacente. Egli «veniva così ucciso una seconda volta». Di seguito, un’attrice legge l’ultima lettera di Armida Miserere, scritta prima di suicidarsi, tredici anni dopo la morte del compagno.

ATTRICE: “È Venerdì Santo. Come Cristo, anch’io affronto l’ultima Via Crucis. Sono stanca, troppo. La vita professionale, la stima, non sono sufficienti a riempire il troppo dolore che sempre mi accompagna. Non c’è più posto in me per l’amore, per la comprensione, per la saggezza, per la generosità. Mi resta un ultimo atto di coraggio. Un atto di coraggio contro chi non è stato capace che di sole menzogne, ipocrisie e viltà. A lui, a loro, la vergogna del mio sangue e di un dolore che li perseguiterà per sempre. Auguro morte e infamia, dolore e sofferenza a chi mi ha dato morte e dolore e sofferenza. auguro la stessa angoscia che mi ha uccisa, auguro tutto il male del mondo, auguro vite distrutte, così come con tanta leggerezza è stato distrutto quello che resta della mia!”

Il quarto frammento è dedicato a Giovanni Falcone e si presenta come un flusso dei pensieri del giudice negli ultimi momenti della sua esistenza. È molto interessante il discorso linguistico sulle parole “onore” e “Mattanza”, parole appartenenti ad una certa cultura, di cui poi la mafia ha denaturato il significato.

“Mattanza”… Una parola che parla di cacce antiche, radicate nella cultura siciliana. “Mattanza”… questa parola ora sta a significare una forma di esecuzione efferata tra clan o ai danni di personalità dello Stato. Un eccidio, dove ad essere uccisi non sono tonni, ma altri esseri umani.

ATTRICE: Si muore, generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore, spesso, perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si e privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.

ATTORE II: Anche la parola “onore” è stata espropriata. La mafia si è impossessata di questa antica e superba parola. Si definiscono “uomini d’onore”. Ma la loro onorabilità sta solo nell’uso della forza e del terrore. Bisognerebbe lottare per riprendersi il significato originario di questi termini. Ma così si torna a quel problema di fondo, a quella mancanza di cultura civica di cui parla spesso con il suo amico Paolo Borsellino. Una mancanza che andrebbe colmata dalla scuola, fin dai primi anni.

Falcone ci viene qui descritto come profondamente turbato. Persino tra i suoi stessi colleghi si sente isolato. L’aereo atterra a Punta Raisi. Il giudice chiede di guidare, per rilassarsi. Lungo la strada osserva il mare, che «già preannuncia l’estate, le nuotate, i tuffi…».

ATTORE I: Ma ormai anche il mare gli si è fatto nemico. Quella borsa da sub imbottita di tritolo, di due anni prima, sullo scoglio dell’Addaura, ancora lo tiene sveglio la notte. Come facevano a sapere che si sarebbero incontrati a casa sua con i magistrati svizzeri? Non l’aveva comunicato a nessuno. È stato un caso che non siano scesi sulla spiaggia per rinfrescarsi con una nuotata, avevano troppe informazioni da scambiarsi sui traffici internazionali di denaro sporco, di droga. Le risposte alle tante domande lui le intuisce, e da tempo. Una concatenazione di nomi, fatti, deduzioni. La mafia non agisce da sola. È accompagnata, foraggiata, usata e riverita da pezzi dello Stato, pezzi mescolati, pezzi nascosti.

ATTRICE: La mafia è un fenomeno umano. E come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione, e avrà quindi anche una fine.

ATTORE II: Non si sta affatto rilassando. I pensieri continuano a martellargli in testa. Vorrebbe solo riposare. Toglie le chiavi dall’auto in corsa e le porge dietro al suo autista, che fa appena in tempo a rimproverarlo, spaventato per quel gesto inconsulto. Un attimo dopo, la strada si solleva in un boato.

L’ultimo frammento è dedicato a Paolo Borsellino, morto nella strage di via D’Amelio. Un attore avanza per raccontare dapprima un aneddoto della vita del giudice, di quando per scherzo disse a Falcone di aver scritto il discorso per il funerale dell’amico. Si passa poi al racconto della strage del 19 luglio 1992, quando Borsellino stava andando a trovare la madre come tutte le domeniche. Sceso dalla macchina, una Fiat 126 esplose con 90 chili di esplosivo. In seguito arrivarono la polizia e gli agenti dei servizi, che ripulirono la scena a dovere, trafugando l’agenda rossa su cui il giudice annotava le scoperte investigative più importanti. «Dentro c’erano i nomi dei politici, gli intrecci tra industriali e mafiosi, i nomi dei traditori dello Stato». Viene arrestato, come esecutore dell’attentato, Vincenzo Scarantino. Se non fosse che…

(Le seguenti frasi sono pronunciate ciascuna da diverse attrici.)

C’è donna.

C’è una donna che grida.

C’è una donna che grida davanti a una casa.

C’è una donna che grida davanti alla casa di un’altra donna.

C’è una donna che grida davanti alla casa di un’altra donna che è una vedova.

C’è una donna che grida davanti alla casa di un’altra donna che è vedova da due anni del giudice Borsellino.

Dice che ha bisogno di parlarle con urgenza, perché lei è Rosalia Basile, la moglie di Vincenzo Scarantino.

Dice che suo marito è innocente, che non è stato lui ad uccidere il giudice.

Dice che in carcere ce lo costringono, che il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, minaccia di impiccarlo se non collabora.

Dice: “Mio marito non ha di che pentirsi, è veramente innocente”.

Quattro anni dopo c’è un uomo.

C’è un uomo che parla.

C’è un uomo che parla davanti a due procuratori.

C’è un uomo che parla davanti a due procuratori e parla della strage di via D’Amelio.

Dice: “Scarantino non esiste. Ci ficiru dire chiddu ca nun avìa a diri”.

Quell’uomo si chiama Gaspare Spatuzza e si accusa di essere stato lui, e non Scarantino, ad aver rubato l’auto poi usata per uccidere il giudice Borsellino.

Il suo racconto è identico a quello di Scarantino, tranne che per un particolare.

Nel garage dove l’auto veniva imbottita di esplosivo c’era anche un uomo, sui cinquant’anni, estraneo a Cosa nostra.

La differenza fra le due versioni è tutta lì, in quell’uomo sconosciuto. Probabilmente appartenente ai servizi segreti o alla polizia.

Ecco allora a cosa serve il depistaggio Scarantino: a non far sapere che la strage di via D’Amelio è una strage di mafia, ma anche una strage di Stato.

Come faceva Scarantino, che era davvero innocente, a conoscere tutti i particolari dell’attentato?

Era stato imbeccato?

Suggerito.

Ispirato.

Consigliato.

Indottrinato.

Istruito.

Indettato.

Nelle udienze durante gli interrogatori, quando Scarantino si confondeva o non si ricordava quello che era stato obbligato a confessare, si chiedeva una pausa per andare in bagno. E lì veniva di nuovo indettato per non fare altri errori.

In una sentenza depositata  il 30 giugno 2018, la corte d’assise di Caltanissetta ha definito l’omicidio di Borsellino uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.

Questo è l’ultimo frammento di Paragoghè. Depistaggio, andato in scena dal 23 al 25 maggio al Tribunale di Ancona ed è stato trasmesso da “Il Teatro di Radio3” in occasione dell’anniversario di Capaci. Non credo ci sia modo migliore di ricordare il giudice Falcone di uno spettacolo incentrato sulle maggiori stragi che hanno colpito il nostro paese dal ’69 in poi, e sui depistaggi ad esse correlati. Essendo la radio uno dei miei passatempi preferiti, è stato interessante “assistere” alla rappresentazione attraverso questo mezzo, sempre antico e sempre moderno. E credo sia valsa la pena di raccontartelo per iscritto.

Buona lettura, buon ascolto e buon teatro! 

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