Selfie prende vita da un triste fatto di cronaca.
Rione Traiano, Napoli. Estate 2014. Il sedicenne Davide Bifolco, dopo essere stato seguito dai carabinieri, sicuri di essere riusciti a scovare un latitante, viene ferito con una pistola alla testa da uno dei due agenti. Il colpo è fatale. Alcuni giorni più tardi, dopo i funerali e il lutto cittadino che scatena scontento e una grande partecipazione da parte della popolazione, anche il fratello della vittima, Tommaso, se ne va in fretta: lasciatosi morire dopo la morte di Davide.
Una tragedia cela quel mistero giudiziario: il carabiniere ha sparato sbadatamente al giovane, o l’ha fatto di proposito? Ennesimo caso in Italia di delitto irrisolto e che implicherà ancora anni per scoprirne la verità. Nel frattempo, Traiano continua la sua vita di quartiere malfamato, dove la gente è costantemente vittima di questi eventi infausti, di critiche da parte dell’altra ala della società. Dove la popolazione sembra essere lasciata solo a se stessa: all’artiglio della camorra che non fa altro che proliferare di boss e operai al suo servizio.
Un luogo dove la vita non è semplice, nemmeno per due sedicenni che, facendo del loro meglio, cercano di scrollarsi di dosso questa veste malavitosa e la continua presenza della Camorra. Selfie, diretto da Agostino Ferrente, è un ritratto di vita violenta e un simbolo del grande sforzo per uscire da essa.
Al centro della storia, che è una sorta di pseudo documentario girato interamente con il cellulare, ci sono Pietro Orlando e Alessandro Antonelli. Amici ormai da anni: uno la spalla dell’altro. Fratelli che a Traiano vivono la tragica vicenda della famiglia Bifolco. Uno, Alessandro, lavora come barista, mentre Pietro ha l’aspirazione di diventare barbiere. Così fa pratica, su Alessandro, con il padre e altri, sperando un giorno di poter lavorare in questo settore.
Sotto le direttive di Ferrente, Alessandro e Pietro vagano, assieme o individualmente, per le strade di questo quartiere: ognuno dei due, cerca di definire la propria situazione, il proprio disagio, e il proprio pensiero sulla propria e attuale esistenza, su quella di altri come loro e sulla triste sorte che è toccata a Davide. Non sono paladini né eroi o simboli di purezza e legalità immersi in un contesto degradante che ti fa smettere ben presto di sognare e ti fa crescere con molta rapidità. Sono due ragazzi che la pensano semplicemente in maniera diversa.
Il panorama cinematografico e anche quello delle serie televisive è stato in un certo senso corrotto con la presenza di una grande quantità di storie di malavita. Film gangster, o serie come Gomorra, sebbene nascano come critica e resoconto di quel mondo, hanno dato spazio alla storia romanzata. Questo, naturalmente, lascia spazio a una mitizzazione del personaggio del camorrista, visto come eroe. Siamo diventati affascinati da questa figura sebbene rappresenti solo uno stereotipo, e per di più negativo.
Ferrente fa l’opposto e con l’interesse documentaristico di Pasolini, dei ritratti sociali e film d’inchiesta di Rosi, Comencini o Nanni Loy, prende ad esempio due personaggi reali che non si sono sporcati le maniche. La loro vita è dura: in un ambiente come questo sono costretti a crescere in fretta, eppure non si vendono a un più facile guadagno che può dare la criminalità, e lottano con tutte le loro forze per farci capire che c’è un altro modo, e la speranza di cambiare è sempre viva: sebbene il loro destino sembri in certi casi già scritto.
Lo stesso Pietro e Alessandro, o altri ragazzi che entrano a far parte del film di Ferrente, sembrano già sicuri che non lasceranno mai quel quartiere. Traiano, per molti di loro, sarà sempre la loro casa, anche se non ci vivono bene. E il film non intende per nulla essere tutorial o consigliere. Selfie si limita a raccontare fatti, momenti di vita e pezzi di vite. L’inizio è aperto, perché tutto inizia da una vicenda che, sebbene la sua crudezza, si ripete sempre, ormai da anni: non solo a Napoli e nei quartieri limitrofi, ma anche in altre regioni e in altri stati. Il finale è allo stesso modo aperto, lasciandoti credere, sognare e sperare.
L’idea del film, nata durante una chiacchierata tra Ferrente e il padre di Davide Bifolco, porta il regista alla conoscenza di due giovanissimi ragazzi di quartiere. È la loro vitalità a convincere del tutto Ferrente che dirige, ma non preclude ogni sorta di pensiero, di manifestazione ed evento vissuto da Pietro e Alessandro. Con un cellulare a testa, sono i registi di se stessi. Nonostante il film voglia soprattutto andare oltre lo stereotipo del napoletano, non si può non cadere nel cliché quando i due protagonisti recitano. I napoletani sono degli attori nati e lo si vede scena dopo scena.
Più che attori di film, sono i naturali interpreti della loro stessa esperienza nella comunità: esperienza che li porta a vivere a Traiano senza però mai arrendersi, aiutandosi a vicenda. Tutto, le vite, le interviste, i momenti belli e quelli brutti, le giornate al mare o alla sala giochi –ritrovo di molti giovani: tutto è intervallato dalla presenza delle telecamere di sorveglianza che riprendono in maniera impassibile, sterile e asettica, come in un reality o come il grande fratello di Orwell, il quotidiano scorrere delle ore, dei minuti e dei secondi.
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