Once Upon a Time in Hollywood, nelle sale italiane a partire dal 18 settembre 2019, non si può definire un classico di Quentin Tarantino. È più una sensazione che ne riesuma infinite altre durante tutta la sua durata. Il film si presenta subito come il magistrale esempio di chi fa cinema da ormai trent’anni: come un albero genealogico composto da infiniti rami, ai quali si snodano ben altre emozioni.
Lontano per stile dai suoi film precedenti, la favola catapulta immediatamente lo spettatore nella Hollywood degli anni sessanta, più precisamente nell’anno 1969. Ciò che ne viene fuori è un lungo, intenso e affezionato tributo ad un’epoca lontana, forse smarrita.
L’epoca dei grandi contrasti sociali, degli hippie, un’epoca in cui tutto poteva succedere e che effettivamente accade, tra le luci al neon dei locali della grande città californiana, la musica rock e il cinema.
La stella del cinema Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) e il suo amico fidato e tuttofare Cliff Booth (Brad Pitt), vivono, anche fuori dal set, come se fossero solo un’unica persona. La stima e l’affetto reciproco che c’è tra i due è così forte che nemmeno quando Dalton sente di non essere più l’attore che era una volta il loro legame si logora. Anzi è proprio in quel frangente che Cliff cerca di tirargli su il morale, cercando di convincerlo ad accettare la proposta fattagli dal produttore cinematografico Marvin Schwarz (Al Pacino), quella di andare in Italia e mettersi a rifare film western.
Tuttavia Rick, ormai relegato solo a piccole comparsate in serie televisive e in film di serie B, preferisce restare a Hollywood, crogiolandosi nel suo dolore e nel vecchio vizio dell’alcool.
Cosa opposta sembra invece accadere per i coniugi Polanski, da poco trasferitisi vicino alla casa di Dalton sulle colline di Beverly Hills, a Cielo Drive. Infatti per la giovane moglie del regista polacco, Sharon Tate (Margot Robbie), le cose vanno per il meglio. Dopo i primi lavori in televisione e piccoli ruoli in alcune pellicole, anche per Sharon arriva il momento della ribalta, con il film The Wrecking Crew.
Vediamo infatti giovane e bella attrice sull’onda del successo entrare in un cinema e gustarsi la reazione del pubblico alla sua prova attoriale, o dividere la sua vita e quella del marito con gli amici più cari come Steve McQueen, Bruce Lee e l’ex compagno Jay Sebring (Emile Hirsch).
Il più antitarantiniano nella filmografia del regista americano, e questo lo si vede nella prima di quelle tante sensazioni e tributi cosparsi un po’ dappertutto come nella vetrina di un grande negozio.
È una sensazione prima di tutto storica, che suscita immediatamente una mancanza e una malinconia in coloro che effettivamente hanno vissuto quegli anni così rivoluzionari. Tarantino entra a gamba tesa in quel mondo già omaggiato in altre sue opere. Ora però scruta più da vicino, immergendosi e strisciando nelle viscere della società americana, o meglio californiana, di quel preciso momento storico. Sulla soglia degli anni sessanta Quentin riecheggia il passato ponendo a confronto personaggi reali e quelli puramente di fantasia.
Tra la fresca carriera di Sharon Tate e quella in via di decomposizione del personaggio di Rick Dalton, è scalfita la tragicità della vita ma soprattutto la tragica spietatezza del cinema. La storia della nascente Tate si contrappone a quella alla fase di decadenza professionale di Dalton e anche qui la sensazione non è più solo storica, ma soprattutto artistica: e soprattutto per quanto riguarda il cinema. La finzione si lega alla realtà prendendo spunti come meglio può.
Dove la finzione non arriva arrivano le emozioni stesse di Tarantino che ci mette del suo. Si vive a stretto contatto con la sua personale esperienza di vita e di cinema. Il caldo omaggio che viene fatto all’industria cinematografica di quel periodo non tocca solo i grandi film e i film di serie B.
Il cinema italiano è un altro grande spunto che permette di collegare la prima parte, quella in cui vengono presentati i vari personaggi, alla seconda, quella in cui Dalton si decide ad andare in Italia per lavorare con registi come Sergio Corbucci o Antonio Margheriti. Il tributo a Sergio Leone è quasi scontato perché il titolo la dice già lunga.
In questo frangente la tragica fase calante di Dalton cita quella di molti altri attori hollywoodiani che, proprio in Italia, ritrovarono il successo che sembravano aver perduto in patria; in particolare nella capitale mondiale del cinema, dove tutto può cambiare da un giorno a quell’altro. Sarebbe sciocco non dire che questo ha riguardato molte stelle del cinema, in particolar modo del cinema western. Lee Van Cliff è uno dei tanti esempi che si potrebbero fare.
Le emozioni scaturite dalla musica e dal cinema e da tutte quelle prove artistiche scaturite da una fucina come era Hollywood, sbatte contro la sensazione del grande realismo storico che viene tracciato. In questo caso, la finzione e la fantasia del regista cozzano contro vicende e personaggi realmente accaduti. Perciò se da una parte c’è la vitalità di Tate dall’altra non può che esserci l’ombra di Charles Manson e della sua Family, accampati nello Spahn Ranch di George Spahn. Una sensazione di icone che va, quindi, dall’immortale presenza di uno Steve McQueen o un Bruce Lee, a quelle icone di cruda realtà come Manson.
E l’accurata precisione con la quale viene descritta la società, ma soprattutto la vita della Famiglia Manson è a dir poco sconvolgente. È questa chiara descrizione che scaturisce un’ulteriore emozione, quella che potremmo chiamare una sensazione di tragedia. Sapendo come la vita di Tate sia stata tragicamente stroncata dagli efferati delitti del 9 agosto 1969, si comincia a vivere ogni scena con maggiore ansia e intensità fino ad un finale che lascia tutti in grande stupore.
Finale che, nel suo stile provocatorio, appare meno cruento possibile. Tarantino non regala un’unica storia lineare ma più storie ed eventi, più sensazioni e stati d’animo che convergono tutte in un unico punto. Quando pensiamo di aver visto già tutto, Tarantino cambia le carte in tavola.
Citando Martin Scorsese: “Ma perché i film dovrebbero essere sempre personali? Bè si tratta certo di una mia opinione, ma a partire dalla mia esperienza di spettatore, tendo a credere che più il film esprime una visione individuale –e quindi è personale- più si avvicina all’arte. Questo significa che supererà meglio la prova del tempo, che lo si potrà rivedere centinaia di volte senza annoiarsi”.
Riuscirà C’era una volta a Hollywood a superare questa prova? Falsità, Fantasia e Realtà vivono assieme: si legano e slegano, vanno per la loro strada per poi ricontrarsi nuovamente; tutto è ormai sempre possibile e concesso.
Perciò, superiamo all’istante le critiche mosse dalla famiglia di Bruce Lee. Nel suo film forse più completo e maturo Tarantino fa di tutto pur di metterci del suo, andando a tracciare un caloroso omaggio in più ambiti possibili: al cinema, alla musica, agli stuntman; forse gli unici essere umani preoccupati a differenza degli attori. Tuttavia, se raschiamo sotto le pieghe della trama, l’omaggio è soprattutto per Sharon Tate e per un’epoca storica che, pur trasformando quella precedente e influenzando quelle future, non tornerà più.
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