24 ottobre 2019
È la prima volta che entro al teatro Goldoni di Venezia. Questa sera mi è capitato un posto abbastanza centrale, nel secondo ordine: l’offerta studenti con prevede il lusso della platea… ma pazienza, si fanno belle foto da qua su. Mi accomodo e inizio a sfogliare la brochure.
Nel tempo degli dèi – Il calzolaio di Ulisse, uno spettacolo di Marco Paolini e Francesco Niccolini, regia di Gabriele Vacis, sarà in scena fino al 27 ottobre. Questa originale rilettura dell’Odissea nasce da un interrogativo fondamentale: dove sono gli dèi oggi? Mentre nell’antica Grecia la divinità era vista come un personaggio quasi quotidiano, oggi fatichiamo a percepirne la presenza. « Adesso », leggo nelle note di regia, «gli dèi siamo noi» occidentali, o almeno quelli di noi abbastanza potenti da decidere «dove devono stare gli umani e come devono starci». In altre parole, l’umanità (o parte di essa) ha raggiunto uno stadio in cui le piace pensare di poter raggiungere ogni traguardo. Quante pubblicità ci propongono, ad esempio, creme dell’eterna giovinezza o abbonamenti in palestra per ottenere, in un mese, un corpo degno di Ercole (tanto per stare in tema)? L’Ulisse di Paolini è qualcuno che «davanti alle sirene dell’immortalità sa trovare le ragioni per resistere», per restare umano.
Il personaggio non ci viene presentato nel contesto delle sue eroiche imprese, ma a giochi ormai conclusi. Tornato ad Itaca è subito ripartito, una maledizione lo costringe a viaggiare nell’entroterra con un remo in spalla, finché non incontrerà un pastore che scambierà quest’ultimo per una pala. Sciolto dal vincolo, può finalmente tornare a casa, ma ha fame. Il pastore gli offre alcune capre in cambio delle sue storie. Ulisse diventa così aedo di se stesso: inizia a narrare e sul palco si incarnano man mano Calipso, Circe, Elena… Ma è soprattutto con Penelope e Telemaco che dovrà confrontarsi, la famiglia a lungo dimenticata. E con gli dèi, cui non perdona le continue intromissioni nel suo destino, fatte per puro gioco. Li affronta, ma cerca ancora di capirli. «Sartre diceva che l’inferno sono gli altri. Questo anziano Ulisse ha bisogno di capire quell’inferno che sono gli altri».
Per questo Paolini non è solo in scena, contrariamente a molti dei suoi spettacoli. Elia Tapognani lo affianca nel ruolo di Telemaco, mentre i musicisti e attori Saba Anglana (voce), Elisabetta Bosio (voce, violoncello e violino), Vittorio Cerroni (voce e chitarra, classe 2002), e Lorenzo Monguzzi (voce e chitarra) accompagnano il racconto con musiche che spaziano tra ritmi blues e influenze mediorientali. Il tutto in una scena che usa pochi elementi di grande suggestione: due teli bianchi calati dall’alto diventano prima il mare in tempesta, poi le lenzuola di un letto, mentre una pioggia di coperte termiche dorate simboleggia i corpi senza vita dei giovani Proci. Ma c’è di più. Quelle coperte non sono forse il primo soccorso che si dà a chi, come Ulisse, naviga in cerca della casa che gli è stata strappata?
Felicemente disorientato dal finale, applaudo a ritmo di musica assieme al resto del pubblico. Se il teatro, per essere tale, deve smuovere lo spettatore dalle proprie certezze, questa rappresentazione ci è riuscita, almeno con me. Augurandovi il mio stesso stordimento, vi invito a non perdervi lo spettacolo, che voi siate qui a Venezia o in una delle prossime tappe della tournée.
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