Messi and Maud, conosciuto anche come La Holandesa, è un film del 2017 diretto dalla regista olandese Marleen Jonkman, che si cimenta con successo per la prima volta in un lungometraggio.
Disponibile gratuitamente fino al 31 Dicembre 2019 sulla piattaforma dell’ArteKino Festival, appartiene a quel gruppo di dieci film di pellicole d’autore che prendo parte all’attuale edizione dedicata al cinema europeo.
E’ la storia di una donna, Maud, che sente il bisogno di lasciare tutto e andare attraverso la scoperta del Cile, dove, attraverso luoghi e personaggi, cercherà di ritrovare se stessa.
Il film si apre offrendo un momentaneo pacifico ritratto di una giovane coppia, Frank e Maud, caratterizzati ed uniti dalla passione per l’avventura e l’urgenza di viaggiare.
Un sera, durante una delle tante tappe alla scoperta del Sud America, Maud non si sente bene, torna nella camera d’hotel dove i due alloggiano e, tra atroci sofferenze, avrà un aborto. Rimane lì, inerme, sul pavimento del bagno a piangere e singhiozzare, finché non torna suo marito, dalle cui parole, capiremo che non è il primo episodio.
Per Frank avere bambini non è poi così importante, sente ancora che come coppia possono funzionare, che loro due si bastano. Maud, invece, dopo l’ennesimo fallimento di un coronamento di un sogno, si sente ancora più persa, inutile e non riesce più a dare un senso a se stessa e a quella relazione.
Si imbarca su di una nave approdando poi in Cile, piano piano, scena dopo scena, si entra nelle piaghe del cuore di Maud.
Può essere chiunque. Così all’inizio si presenta come una vedova svedese madre di tre figli, unica ragione di vita dopo la morte del marito. Tenterà follemente, senza riuscirci, di rubare un bambino all’interno della nave in cui viaggia, sentendosi colmare, solo per poco, quel bisogno di maternità che diversamente non riesce a soddisfare.
Ma è una volta arrivata in Cile che il film entra nel vivo della narrazione. Maud non ha una meta, non sa più chi è, dove è e dove vuole andare, è persa e questo si riflette sulle sue scelte, guidate più dalla vita che da lei stessa, dall’irrazionalità e da un’apparente libertà e possibilità di ricominciare.
Così Maud si finge una canadese, sale sul camion di un uomo di mezz’età rozzo e gretto, accompagnato dal suo figlioletto, un bimbetto di otto anni di nome Diego che però si presenta a tutti con lo pseudonimo di Messi, omaggio al suo giocatore di calcio preferito.
Lentamente, Maud, con il suo spagnolo sempre più sicuro, stringerà un legame speciale con il piccolo Messi, con il quale, sempre in un moto di impulsività, inizierà un viaggio da fuggitivi, in seguito ad un tentativo di stupro da parte del padre del giovane ragazzino.
Il film, che da occhi analitici potrebbe essere colto come la storia di una donna adulta che scappa rapendo un bambino, viene invece percepito a tutti gli effetti come una fuga dolce, un viaggio affettuoso di una mamma e suo figlio
Si presentano così infatti, Messi e Maud, come madre e figlio, entrambi spinti da un bisogno di famiglia, Maud da un lato e la sua necessità d’essere madre, Messi dall’atro, che vorrebbe solo avere qualcuno che gli voglia veramente bene, non un tipo violento come il padre.
Maud ci prova a comportarsi in modo razionale, a far ricongiungere Diego con la madre, una donna descritta dal piccolo come “dolce” e “bella”, ma sicuramente non in grado di proteggerla dalle grinfie del padre, non con lo stesso coraggio e tenacia con cui ha fatto Maud.
Maud compra un biglietto di sola andata per Messi, lo fa salire su un autobus mentre lei sale su di un altro, in direzione opposta.
Ma non ci riesce. Maud su quell’autobus non ce lo lascia il piccolo Messi, non è ancora pronta, e riprendono così la loro avventura, unendosi anche ad un contingente hippie che li guiderà su di una spiaggia.
E’ proprio qui che cadono le bugie.
Finalmente Maud racconterà la sua verità, la sua storia, quella d’aver provato a concepire un figlio, fallendo tutte le volte.
E’ qui che si prova a risolvere, senza fornire troppe risposte, un dubbio che, probabilmente, ha guidato lo spettatore per tutto il film.
E’ una delle ragazze del gruppo che, ascoltata la storia di Maud, le chiede perché per lei sia così importante avere figli.
Lei risponde che non lo sa e la ragazza le ribatte che allora può andare tutto a fanculo.
Sembrerebbe un ottimo modo per ricominciare, una semplice frase ma una purificazione, il ricongiungimento a se stessi. Fanculo, non servono figli per star bene con se stessi, per darsi valore.
Non è un ruolo sociale, una convinzione, un desiderio forte ma infondato a definire chi siamo.
Anche se a volte un “non lo so”, un’apparente assenza di motivazione, è abbastanza forte per essere già di per sé motivazione.
Ma è il carattere di Maud, sempre in viaggio, sempre con la necessità di muoversi, di andarsene, per raggiungere una se stessa che insegue ma che non riesce mai a raggiungere.
Finalmente però, pressata anche dagli occhi con cui viene vista dal mondo, come una sequestratrice, capisce che è giunto il momento di tornare alla vita vera.
Riconsegna così Messi alla madre, compiendo un grandissimo atto di coraggio per lei, quello che fino a questo momento non era riuscito a compiere: lasciare andare un figlio e accettare che abbia una madre che non sia lei.
Il film finisce con Maud che urla davanti ad una distesa, un urlo di dolore, ma anche di rinascita.
Un film intimo, di sentimenti chiaroscuri su un Cile paesaggisticamente e socialmente anch’esso in chiaro scuro. Un tema delicato, trattato in modo immediato ma non banale, un personaggio sfaccettato ma semplice da capire, da comprendere, da abbracciare.
Un ottimo esordio per la regista olandese. Un film che merita di essere visto e rivisto per compiere anche noi il nostro personale viaggio.
ArteKino Festival è online fino al 31 dicembre 2019.
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