Lungometraggio d’esordio della regista Simona Kostova, Thirty (Dreissig in lingua originale) è una pellicola che mette in scena la vita di un gruppo di amici ormai alle soglie dell’età adulta, ognuno con il proprio bagaglio di dubbi, paure, illusioni e contraddizioni. Disponibile in streaming sulla piattaforma di ArteKino Festival fino alla fine di dicembre, il film porta lo spettatore in giro per la Berlino notturna con il pretesto di festeggiare il trentesimo compleanno di Övünç, mostrando allo spettatore luci ed ombre (letteralmente) di chi popola la movida notturna berlinese.

Fin dalla prima sequenza è palese l’impostazione di Thirty: una telecamera fissa mostra il risveglio di Övünç nella sua camera, una stanza spoglia e disadorna, in cui il protagonista passa la mattina del suo compleanno immerso nella routine di tutti i giorni, mantenendo i contatti con l’altro al minimo necessario, fumando in continuazione e limitandosi a farsi trascinare dalla giornata. Anche gli altri protagonisti dimostrano di vivere una condizione di incapacità di crescita: che si tratti di Pascal e Raha che tentano di voltare pagina dopo la fine della loro relazione, di Kara che si avverte inadeguata e incompresa nei confronti degli altri o di Henner che nasconde il proprio disagio in una continua ed esuberante euforia, tutti i membri del gruppo dimostrano fin dalle prime scene di vivere un malessere che viene celato talvolta con difficoltà, talvolta con disinvoltura, come se non avessero fatto altro da molto tempo a questa parte.
Le dinamiche relazionali che vengono mostrate dalla macchina da presa appaiono reali e sincere, prive dei fronzoli e della teatralità a cui ci ha abituato il cinema americano, facendo intuire che le situazioni descritte in Thirty sono state vissute in prima persona dalla regista. A voler sottolineare questo aspetto di aderenza alla realtà anche la singolare scelta (di certo non casuale) di non cambiare i nomi degli attori, creando così una stretta connessione tra fiction e mondo reale.

Il lungometraggio presenta i tratti distintivi tipici del cinema d’autore tedesco, pregno di quell’esistenzialismo che abbiamo conosciuto con le opere di Wenders, che utilizza non solo la recitazione per esprimere gli stati d’animo dei protagonisti, ma sopratutto l’uso della macchina da presa, che attraverso le lunghe inquadrature fisse riesce a comunicare allo spettatore l’impossibilità dei protagonisti di fuoriuscire dal proprio malessere. Anche gli ambienti rispecchiano i moti interiori dei personaggi, che si dimostrano a disagio nei locali glamour, pieni di folla appariscente ma priva di spessore, in netto contrasto con gli ambienti scevri delle discoteche underground (impossibile non pensare al cult Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) in cui i protagonisti possono sfogare il proprio disagio, dandogli voce con il proprio corpo piuttosto che con la parola.
Una vera e propria boccata d’aria all’interno del lungometraggio sono le sequenze in cui Övünç, Raha e sopratutto Anja riescono a dimenticare il proprio malessere per tornare alla spensieratezza della gioventù, che sia solo per una bravata notturna o per il tempo della colazione post sbronza, silenziosa ma sufficiente a ricordare il perché del loro rapporto.