Old boy. Questo è il titolo del capolavoro del 2003 del regista sud coreano Park Chan-wook. Secondo di tre film appartenenti alla cosiddetta Trilogia della vendetta, e tratto dall’omonimo manga, si aggiudica numerosi premi, tra cui il Grand Prix Speciale della giuria nel 2004 al Festival di Cannes. Premiato in quell’occasione da Quentin Tarantino, noto estimatore di pellicole incentrate sulla violenza e sulla vendetta.
Protagonista è Dae-su, snaturato padre di famiglia dedito all’alcool e alle donne, che, una sera, dopo essere stato arrestato per il suo atteggiamento molesto aggravato dall’ubriachezza, scompare nel nulla. Dae-su si risveglia da solo, in una piccola stanza squallida, pieno di domande senza risposte.
Perché proprio lui? Quanto a lungo dovrà rimanere lì? Chi può odiarlo così tanto da tenerlo imprigionato? L’unico appiglio con il mondo esterno e con lo scorrere del tempo è dato dalla televisione, la quale scandisce i giorni, i mesi e gli anni tenendogli passivamente compagnia.
È proprio da questa che viene a conoscenza dell’omicidio di sua moglie, del quale risulta il principale indiziato, per via di alcune impronte ritrovate sulla scena del crimine. Se anche mai fosse tornato in libertà, non sarebbe comunque stato libero ma avrebbe dovuto continuare a scappare, a lottare da solo, come un ricercato criminale.
Così Dae-su inizia a pianificare la sua fuga. Si prepara fisicamente ad uno scontro all’ultimo sangue, per poter dare un volto e un nome a chiunque gli stesse facendo tutto quel male. In altre parole, Dae-su vuole vendetta.
Poi, un giorno, apparentemente, tutto finisce. Dae-su, dopo una seduta di ipnosi, si risveglia su di un tetto, finalmente libero e pronto ad attuare il suo piano. Ciò che non sa è che questo è soltanto l’inizio. La ricerca della verità e delle risposte di cui ha bisogno, lo porteranno, sì, sempre più vicino a uno scontro faccia a faccia con il suo carnefice, ma questo non significa obbligatoriamente anche l’avvicinarsi alla propria vendetta.
In una storia che prende connotati sempre più malati e oscuri, con colpi di scena sempre più torbidi e mostruosi, Dae-su imparerà una lezione importante, ovvero che si può essere vittime e carnefici allo stesso tempo. Guardando dentro gli occhi dell’uomo che per anni lo ha imprigionato, si accorgerà di non esserne poi tanto diverso. Entrambi feriti, entrambi in cerca di vendetta, con storie simili, un po’ per natura umana e un po’ per costruzione della volontà umana.
La vendetta, fulcro centrale di tutta la storia, perde di significato, perché vendicarsi non cancellerà il dolore nè tanto meno il passato. E allora, una volta attuata, se niente cambia, cosa rimane da fare?
Il finale di Old Boy propone due strade: l’annientamento fisico, il suicidio, oppure il dimenticare. Di nuovo centrale è il ruolo dell’ipnosi, che fa da filo conduttore per tutto il film, usata abilmente, in una visione che dal classico sfocia nel fantascientifico, ma che tuttavia non nega interessanti spunti di riflessione.
Ma l’ipnosi e il condizionamento sono arti umane e non sovrumane, controllabili dall’uomo ma che, in quanto nelle sue mani, non possono dominarlo completamente. È questo dubbio che rimane nell’inquadratura finale, nell’enigmatica espressione di Dae-su: prima sorriso e poi smorfia di dolore. Dimenticare potrebbe davvero essere l’unico modo per tornare a vivere? Sarebbe davvero sufficiente?
“Sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?”. Questa è una frase emblematica del film, che lo riassume in poche righe.
Se mi è concesso un personalissimo commento, anche oltre il significato del film, non vi è vendetta che tenga. Senza il perdono, non importa quanto sia grande la colpa di cui ci imputiamo o gli altri ci imputano. Crederemo di perdere comunque qualsiasi diritto di vivere.
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